Cinema : Il Giappone di Wes Anderson

Per questo progetto, il regista americano ha scelto di produrre un film d’animazione in stop motion. / TM & © 2018 Twentieth Century Fox Film Corporation. All Rights Reserved

I riferimenti alla settima arte del Sol levante, non mancano, in effetti.
Akira Kurosawa è il primo nome che viene in mente, visto che uno dei principali personaggi del film, il sindaco Kobayashi, è il fedele ritratto di Toshiro Mifune, l’attore-feticcio di Kurosawa in Anatomia di un rapimento (Tengoku to Jigoku, 1963). L’universo delle discariche pubbliche, onnipresente ne L’Isola dei Cani, ricorda per certi sensi poi, l’ambientazione di Dodes’ka-den (Dodesukaden, 1970). Ci sono infine dei riferimenti a Ozu Yasujiro e ai film di mostri di cui Honda Ishiro fu uno dei grandi maestri.
Tutto questo ha permesso di creare l’ambientazione perfetta per lo svolgersi della sua storia di cani deportati su un’isola fino ad allora destinata a deposito di rifiuti, dopo l’apparizione di un’epidemia di influenza canina.
L’ostinazione di un ragazzo, Atari, che si reca, malgrado i divieti, sull’isola alla ricerca del suo cane Spots, gioca un ruolo fondamentale nella scoperta di una gigantesca cospirazione architettata per imporre una certa forma di dittatura a Megasaki.
Quando Wes Andrson afferma che si tratta del suo film più ambizioso, non si può che essere d’accordo, dal momento che L’Isola dei Cani è una significativa e bella rappresentazione della sua audacia cinematografica, nel senso che non si è limitato a raccontare una storia sorprendente, ma ha inventato un universo coerente nel quale si muovono personaggi in perfetta armonia con le intenzioni del film.
Dietro al divertimento e a certi aspetti comici, il film tocca soggetti seri, legati all’evoluzione delle nostre società moderne. Certo, non sono temi specifici al Giappone, ma questo Paese deve spesso affrontare, prima degli altri, le problematiche indotte dallo sviluppo del mondo industriale.
L’ambientazione futurista dove sopravvivono numerosi elementi caratteristici degli anni Sessanta, epoca cruciale nella storia giapponese contemporanea con la sua industrializzazione a oltranza, l’inquinamento e parallelamente la contestazione giovanile, è perfettamente adattata ai propositi del film.
L’influenza dei grandi nomi del cinema giapponese è davvero palpabile e ci si diverte a ritrovare certe atmosfere ispirate alle opere di Suzuki Seijun, quando si ammirano alcune scene girate nella città immaginaria di Megasaki.
In questo film eccellente, premiato al Festival di Berlino con l’Orso d’argento per la migliore regia, si scopre con piacere che Wes Anderson non è caduto nella trappola del film-cliché sul Giappone. Lo deve in particolare al lavoro di Nomura Kunichi, uno degli sceneggiatori.
“Siamo tutti amici di Kun, ci conosciamo da diversi anni, è lui che ci ha permesso di essere così realistici e autentici nei dettagli, e di creare un contesto davvero giapponese nel film, dal momento che nessuno di noi altri sceneggiatori arriva da questo Paese”, riconosce il regista. Questo permette di offrire uno sguardo davvero profondo sul Giappone. In nessun momento del film si ha l’impressione di avere a che fare con un’opera “Japan-like”. Al contrario, questo film è completamente giapponese, sia nei toni sia nella maniera in cui i diversi personaggi interagiscono fra di loro. La sola a comportarsi diversamente è Tracy Walker, la liceale americana in Giappone per un viaggio di scambio linguistico, che lavora con passione per il giornale della scuola e ingaggia una battaglia contro il sindaco Kobayashi. Malgrado il suo desiderio di integrarsi, la giovane conserva i suoi comportamenti naturali da gaijin (straniera). Quando dice ad esempio che vuole scrivere partendo dalle “sue intuizioni “, il redattore capo del giornale le risponde: “non pubblico mai niente a partire da un’intuizione “. È una caratteristica fondamentale del giornalismo giapponese quella di appoggiarsi unicamente su fatti più volte verificati per elaborare gli articoli.
È questo genere di dettagli a fare de L’Isola dei Cani un film nipponico a tutti gli effetti. Se si aggiunge al tutto la dimensione umanista che emerge da tutta la pellicola, senza dubbio ispirata dal cinema di Akira Kurosawa, non si può che essere grati di poter approfittare di un’opera di una tale intensità.
Da qui a dire che siamo di fronte al miglior film “giapponese” di quest’anno, il passo è breve e noi siamo pronti a compierlo.
Odaira Namihei