Stabilitosi da numerosi anni nell’arcipelago, Manuel Tardits ci confida la sua appassionante esperienza d’architetto.
“L’immaginazione si arrende o si rafforza quando si confronta con la realtà? ”
Victor Ségalen
Questa citazione di Ségalen, il celebre scrittore orientalista francese, pare anticipare perfettamente il destino di un architetto straniero in Giappone. L’aforisma non soltanto è adatto per definire il senso di spaesamento che ancora oggi l’Estremo Oriente suscita nei viaggiatori, ma è perfetto anche riferito all’universo dell’architettura. Quale scopo insegue l’architetto se non quello di trovare un rapporto armonioso fra un pensiero formale, un’estetica e la loro trasposizione nel mondo reale costellato di obblighi e ostacoli? L’immaginazione, di fronte al Giappone reale nel quale vivo, insegno, costruisco e scrivo da circa trent’anni, non solo non si arrende ma si rafforza giorno dopo giorno.
Non ho un ricordo preciso del momento in cui decisi di venire qui. Erano gli inizi degli anni Ottanta e pensavo di andare all’estero per approfondire gli studi d’architettura compiuti a Parigi. A quell’epoca apprezzavo già parecchio sia la letteratura contemporanea sia il cinema giapponesi, ma avevo una conoscenza limitata degli architetti nipponici. Tuttavia, due esposizioni tenutesi a Parigi sulle residenze private in Giappone, mi hanno colpito e senza dubbio hanno contribuito a spingermi a partire. Le mostre erano quelle dedicate a Ando Tadao e a Shinohara Kazuo. Se agli inizi degli Ottanta il primo cominciava a essere conosciuto per le sue abitazioni in cemento apparente, austere, astratte, chiuse su se stesse, il secondo restava un mistero. Malgrado la bellezza insolita delle case di Shinohara, alcune caratterizzate da pavimenti in pendenza, in terra battuta, da vani interrati e da collage di forme particolarmente aggressive, queste continuavano a risultarmi incomprensibili, sebbene potessi scorgere una logica nascosta nel loro esotismo. Una volta che la mia curiosità per il Giappone fu accesa, scoprii in alcune pubblicazioni l’opera attraente e postmoderna di Maki Fumihiko. Quest’ultimo mi avrebbe poi accolto nel 1986, prima come ricercatore, con all’attivo la mia borsa di studio, poi come studente nel master presso il laboratorio da lui diretto all’università di Tokyo. Era qualcosa di tanto insolito quanto appassionante per uno studente francese, soprattutto nel mio caso, interessandomi io tanto alla ricerca quanto alla pratica. Maki invitava i suoi studenti a partecipare ai numerosi concorsi internazionali ai quali era invitato. In queste occasioni, oltre a essere consapevole di partecipare a progetti fuori dal comune sotto la guida di un grande maestro, penso di aver imparato due cose fondamentali: l’amore per i modelli e i plastici e la flessibilità dello spirito. L’arte di creare un plastico, arte che definirei “della precisione”, alla quale in Giappone si consacrano ore e ore, permette di visualizzare perfettamente i progetti e di comunicare così agevolmente le idee. La flessibilità dello spirito consiste invece in questa mia nuova abitudine di non considerare mai alcuna soluzione per forza migliore rispetto a un’altra. Prima di operare una scelta, Maki studiava parallelamente diverse proposte e non privilegiava nulla prima di avere una visualizzazione perfetta delle opzioni. Mia moglie Kamo Kiwako ed io abbiamo realizzato i nostri primi progetti presso l’Agenzia Célavi Associates, da noi creata all’inizio degli anni Novanta. La bolla economica permetteva di costruire a oltranza e dava ai giovani architetti l’occasione di lanciarsi in nuove sfide. Abbiamo così avuto l’opportunità di lavorare per circa dieci anni al rinnovamento in più fasi dell’Istituto Franco-giapponese di Tokyo. Questo edificio emblematico della modernità giapponese del dopoguerra era stato disegnato da un celebre allievo di Le Corbusier, Sakakura Junzo. Mi sono così trovato a percorrere un’odissea simbolica tra Francia e Giappone, dove ritrovavo parecchi dei famosi “punti” propri all’architetto franco-svizzero, appresi durante i miei studi nei libri di storia dell’architettura moderna.
La tappa seguente, inattesa, comincia nel 1995 e continua ancora oggi. Siamo quattro collaboratori : Sogabe Masashi, Takeuchi Masayoshi, Kamo Kiwako ed io; siamo tutti usciti dal Tokyo Institute of Technology dove insegnò a lungo proprio l’architetto Shinohara. Diamo vita a un lavoro di gruppo dove è necessario tener conto delle idee degli altri, in un collettivo solidale e a lunga durata, cosa più rara di ciò che si possa credere in Giappone, dove nel campo creativo, gli egocentrismi degli uni e degli altri entrano facilmente in competizione. Il progetto Mikan nacque nel 1995 da una serie di circostanze che ci portarono a unire le forze in vista di un concorso lanciato dalla NHK (tv nazionale) e finalizzato alla costruzione di una nuova antenna regionale a Nagano, necessaria per la copertura mediatica delle Olimpiadi invernali previste per il 1998. Vincemmo il concorso e questo ci galvanizzò anche perché era eccezionalmente aperto a tutte le categorie di architetti. Il Giappone, purtroppo, non è il paradiso dei creativi che molti occidentali, per ignoranza, ci invidiano. Lo statuto d’architetto non è affatto protetto e i grandi studi immobiliari monopolizzano l’accesso agli appalti dei cantieri più importanti. Ogni architetto che lavora qui poi, si trova un giorno ad affrontare la nozione ormai svilita e confusa di “giapponesità”. Questo termine, legato al “giapponismo”, parola inventata nella seconda metà del XIX secolo, caratterizza in origine lo shock culturale generato dall’incontro tra Giappone e Occidente, dopo la chiusura bicentenaria dell’arcipelago. Oggi la questione fa tergiversare, irrita persino. Sejima Kazuyo vi risponderà che lei crea architettura giapponese semplicemente perché è giapponese! Non si potrebbe essere più lapidari. Un architetto, che sia giapponese o meno, si vede innanzitutto come un creativo di opere originali. Si chiede per caso a un architetto francese cosa costituisce la sua “francesità”? Quasi mai. Per noi, quando si parla di “giapponesità” si tratta prima di tutto di rispondere in maniera contestuale a un ambiente culturale, storico e fisico particolare. La scelta dei riferimenti, delle materie, delle proporzioni e delle tecnologie ha quindi un ruolo importante. Poniamo attenzione a tutto: al vento, alla luce pomeridiana, agli alberi, alle stagioni, ai costumi del posto, alle abitudini dei vicini, ai suoni del circondario, che siano quelli delle cicale o quelli dell’autostrada vicina. I nostri progetti hanno tante sfaccettature quanti sono i contesti e le persone con cui lavoriamo. Aiutati da giovani carpentieri abbiamo disegnato e realizzato da soli un salone temporaneo per la cerimonia del tè, ispirato al famoso Jo-an realizzato nel 1618 da Oda Uraku, sulle montagne che circondano Kobe. Abbiamo costruito recentemente il nuovo centro della Scuola francese d’Estremo oriente a Kyoto, con una struttura in legno basata su un incrocio tradizionale di travi misurate in ken/ma (unità di misura giapponese nata in epoca medievale, ndt) , seguendo i principi di uno sviluppo eco-sostenibile. A Tokyo, stiamo costruendo abitazioni in cemento e metallo. Ecco qui cosa costituisce la nostra “giapponesità”. Quando poi si parla di contesto fisico, non bisogna dimenticare la città: il Giappone è uno dei paesi più urbanizzati al mondo e Tokyo una delle metropoli più grandi del pianeta con i suoi 15 milioni di abitanti. Se l’architettura di Shinohara mi aveva intrigato, lasciandomi intravvedere una logica nascosta, non potevo accettare di vedere in Tokyo, la mia città, in apparenza così caotica, l’assenza totale di una logica architettonica, e ho continuato così a cercarla. In me echeggiava la bella frase di Georges Perec: “Non c’è niente di inumano in una città, a parte la nostra umanità”. Il risultato di questo interesse, maturato grazie alle osservazioni sviluppate nel corso dei miei diversi cantieri, dei miei spostamenti, dei miei traslochi e delle pazienti ricerche portate avanti nel tempo, ha dato vita al libro Tokyo, Portraits et Fictions (in Francia pubblicato dalle edizioni Le Gac Presse, 2011). Maki, il mio vecchio maestro, commentando il libro mi fece uno dei complimenti più arguti: “penso sia un bene che lei non abbia cercato per forza una conclusione chiara al suo studio” mi disse. Esprimersi chiaramente sì, ma mai affermare con certezza. Lasciare che la risposta rimanga sospesa. Maki mi confortava così nella verità del “dubbio creativo” o, parlando di architettura, del “dubbio costruttivo”.
Manuel Tardits