I sociologi David H. Slater e Yamada Masahiro analizzano gli effetti del Covid 19 sui giapponesi.
Che impatto ha il Covid 19 sulle relazioni umane in Giappone? Zoom Giappone ha posto la domanda a due professori: David H. Slater e Yamada Masahiro. Osservatore privilegiato della gioventù nipponica, David H. Slater è professore di antropologia culturale all’università Sophia. Le sue ricerche riguardano la cultura giovanile, le ineguaglianze sociali, gli effetti del terremoto del marzo 2011 e i rifugiati stranieri in Giappone. Non contento di studiare queste numerose tematiche, ha ugualmente organizzato e coordinato un certo numero di progetti, in particolare gli archivi orali digitali “Voices from Tohoku” e “Refugee Voices Japan”.
“Gli studenti di Sophia sono formidabili. Sono un po’ differenti rispetto agli studenti universitari ordinari, poiché molti fra di loro sono cresciuti all’estero e sono ora tornati in Giappone, sempre identificandosi però come giapponesi. Adesso, col lockdown, sono tutti a casa e non hanno nessun impegno particolare, quindi come insegnante, tento di approfittare del loro tempo libero e della loro energia accumulata per coinvolgerli e mostrar loro la situazione attraverso uno sguardo più critico”, spiega il professore.
Con un altro docente dell’università, Nakano Kôichi, si è interessato ai giovani militanti giapponesi. Per numerosi anni, l’attivismo è stato piuttosto blando nell’arcipelago, fino a che la triplice catastrofe – terremoto, tsunami e disastro nucleare – dell’11 marzo 2011, e i progetti di legge del governo sulla sicurezza del 2015, hanno fatto rinascere proteste e manifestazioni popolari. “Questo movimento non poteva essere duraturo”, nota. “Non era radicato in un contesto istituzionale come l’università. Non c’erano sezioni universitarie come negli anni Sessanta e Settanta. Persino gruppi come i SEALD (Students Emergency Action for Liberal Democracy), non hanno avuto lunga vita. Queste azioni si generano di solito attraverso diverse ondate, con periodi di foga militante seguiti da periodi di inattività. Abbiamo pensato che il momento attuale potesse significare il ritorno delle proteste. Fino ad oggi, questo non è ancora successo, ma sento dire che diversi gruppi di giovani si riuniscono nuovamente, è molto interessante. Potremmo assistere a una certa mobilitazione quando lo stato di emergenza sarà terminato”.
Secondo il professore dell’università Sophia, diversi fattori limitano l’impegno militante in Giappone.
“Innanzitutto, esiste ancora una sorta di stigmatizzazione contro il fatto di diventare troppo impegnati politicamente”, constata. “Si potrebbe immaginare che ogni 10-15 anni, le persone tornino in strada, ma la maggior parte dei giovani preferisce un impegno sociale non conflittuale come il volontariato o il sostegno alle fasce di popolazione più deboli. Esitano ancora, quando si tratta di manifestare.
Credo che una delle ragioni per cui i giovani giapponesi sono così poco impegnati politicamente è l’assenza di modelli che possano ispirarli, come per esempio Alexandria Ocasio-Cortez negli Stati Uniti, che gode di una reputazione internazionale e non ha paura di sfidare le autorità.
In Giappone, le persone di età compresa tra 25 e 40 anni sono piuttosto silenziose. Qui, gli studenti non si identificheranno mai a politici più anziani”.
David H. Slater pensa che il sistema educativo dovrebbe assumere una parte di responsabilità per quanto riguarda la debole comprensione della politica contemporanea dal dopoguerra a oggi, da parte di numerosi studenti.
“Ne sanno più su Martin Luther King che sulle manifestazioni che si svolsero nella stessa epoca qui in Giappone”, ricorda. “La scuola dovrebbe aiutare gli allievi a esaminare le cause sociali e gli schemi dell’ingiustizia, ma pochi studenti hanno affrontato queste tematiche. I SEALD hanno veramente dovuto istruirsi su questi argomenti. Ma quando gli studenti ordinari si mettono da soli a imparare la storia del Giappone dal dopoguerra a oggi, la situazione è delicata. Più precisamente, nel nostro ruolo di insegnanti, non facciamo il necessario affinché gli studenti possano prendere posizione, formulare le proprie opinioni e difenderle contro altre opinioni. Non hanno l’abitudine di sfidarci, né di sfidarsi gli uni contro gli altri. Di conseguenza, anche nel contesto della crisi da coronavirus, la maggior parte non adotta un punto di vista critico sulla circolazione e sulla consumazione dell’informazione. Sappiamo ben poco di come il governo gestisca la situazione. Potremmo quindi immaginare che i giovani vogliano saperne di più”, aggiunge.
Lontani dall’impegno collettivo con altri studenti, molti giovani in Giappone sembrano invece rinchiudersi nella loro bolla mediatica. “Penso che passino ancora più tempo dietro ai loro schermi. Poiché sono tutti a casa, tutti rigorosamente online, avremmo potuto immaginare che la densità degli scambi sui social network fosse più alta, che si stabilissero più contatti. Ebbene, pare di no. In altri termini, vivono questo periodo come un momento di isolamento. Guardano un po’ più le informazioni, ma al tempo stesso si ritirano all’interno della famiglia e lontano dal flusso dei social media. Questo era davvero inatteso. Quasi tutti i miei studenti mi hanno detto che approfittano di questa opportunità perché il tempo trascorso in famiglia sembra essere molto importante. Suppongo che quando la scuola riprenderà, le cose cambieranno nuovamente”, nota l’insegnante.
“Certo, parliamo soprattutto di studenti ricchi, provenienti da università prestigiose. Gli studenti meno privilegiati continuano a lavorare nei negozi di prossimità e occupano altri posti di lavoro part time, fanno fatica ad andare avanti perché sanno di essere in pericolo. Quando lavori al FamilyMart (catena di minimarket aperti 24h/24), una mascherina non può salvarti. C’è una netta differenza fra le classi sociali in questo senso, i privilegiati possono isolarsi in casa, mentre i meno fortunati sono sempre fuori a battersi per qualunque impiego possano trovare”, constata.
Con la chiusura di numerose imprese, molti studenti non hanno potuto conservare il loro impiego part-time, e la sola opzione è quella di accettare le opportunità che rimangono disponibili, ossia lavori ancora più difficili e faticosi, come le pulizie, che, durante una pandemia, oltre ad essere debilitanti per il fisico si rivelano pericolose per la salute.
“Essere studenti è difficile per molti giovani. Bisogna pensare che le università incassano parecchio denaro e ora non hanno più nemmeno bisogno degli addetti alle pulizie visto che, per il momento, tutte le conferenze avvengono online. Sono sicuro che hanno licenziato tutto il personale addetto alle pulizie e altri impiegati, ma nessuno ha intenzione di rimborsare le tasse universitarie.
A Sophia abbiamo creato un fondo destinato agli studenti in difficoltà. Possono chiedere una riduzione delle spese scolastiche e talvolta anche un po’ di più. Ma anche qui, conosco qualche studente che ha dovuto abbandonare gli studi perché non poteva più pagare le spese o i prestiti. Questo stato di cose dimostra che la società giapponese è lungi dall’incarnare quella grande classe media stabile di cui ci si è tanto vantati”, spiega David H. Slater.
“Certi studenti non hanno nemmeno la possibilità di ritornare presso le loro famiglie. Alcuni non hanno un computer, non possono dunque seguire i corsi online che attraverso lo smartphone. Una delle miei studentesse mi ha detto che aveva potuto pagare le tasse scolastiche perché aveva messo da parte abbastanza denaro, ma che se avesse seguito i corsi sul web da casa sua, tutti si sarebbero resi conto di dove e di come vive la sua famiglia. Ha una certa immagine pubblica, e non vuole mostrare l’ambiente in cui abita. Il suo ragionamento implica che la giovane ha coltivato un look “da classe media” nel suo modo di vestirsi, ecc. e teme di mostrare la realtà del suo quotidiano. Ha quindi finito per traslocare da un’amica, e finché non avranno corso nello stesso orario, tutto andrà bene”.
Professore di sociologia presso l’università di Chûô, Yamada Masahiro è uno dei ricercatori più influenti. Molte espressioni da lui formulate, come parasaito shinguru (“single parassita”) e konkatsu (“ricerca di un partner coniugale”) sono entrate nel vocabolario generale. Specialista delle questioni famigliari e di genere, ritiene che uno degli aspetti più interessanti della crisi sanitaria attuale sia il fatto di aver spinto le persone ad adottare nuovi stili di vita. “In Giappone, come sapete, il telelavoro non è realmente un’opzione poiché la maggior parte di imprese non è abituata a questa possibilità”, ricorda. “Uno dei miei studenti mi ha detto scherzando che, visto che il padre continuava come d’abitudine a recarsi al lavoro, in famiglia ognuno ha deciso di consumare i pasti separatamente dagli altri, ognuno nella propria camera, per paura di contaminarsi” (ride).
I Giapponesi affrontano le relazioni tra i sessi – e in particolare il matrimonio – in maniera diversa rispetto alle pratiche occidentali. Un caso tipico è il bekkyokon (“matrimonio separato”) , un accordo nel quale una coppia sposata non condivide lo stesso tetto. I partner possono affittare appartamenti diversi nello stesso immobile o vivere nello stesso quartiere e vedersi quando ne hanno voglia.
Un esempio simile è chiamato shûmatsukon (letteralmente “matrimonio del week-end”): gli sposi si incontrano solo nel fine settimana, generalmente perché durante i giorni lavorativi sono molto occupati e lavorano fino a tardi. Spesso, inoltre, i lavoratori uomini sono inviati in trasferta dalla loro impresa in succursali in città lontane, per qualche anno, lasciando così la famiglia a casa e andando a trovarla solo nel week-end.
Sebbene queste pratiche non siano molto diffuse, suggeriscono una mentalità in cui l’intimità non è considerata come un elemento fondamentale per il matrimonio. “In Giappone, la comunicazione orale, come dare o chiedere consigli, o ancora discutere su argomenti riguardanti la famiglia, non è considerata come una priorità”, spiega Yamada. “L’uomo e la donna hanno ruoli e competenze completamente diversi in casa e fanno attenzione a non intralciarsi a vicenda. Inoltre, oggi abbiamo talmente tanti gadgets elettronici che le persone si privano ulteriormente di interazioni: lei guarda la televisione mentre lui è impegnato coi videogiochi sul computer, o entrambi sono ipnotizzati dal loro smartphone. Ciò, rappresenta certamente una realtà che riguarda il mondo intero. Ecco perché, quando passano entrambi un lungo momento insieme, come in questo momento di lockdown, la casa diventa improvvisamente troppo piccola. Senza contare che, se ci sono dei bambini, il marito può innervosirsi se sono rumorosi o noiosi. In altri Paesi, sembra che il tasso di violenze domestiche sia più elevato a causa del coronavirus. Non abbiamo ancora dati concreti per sapere se il Giappone segua la stessa tendenza, ma sono stati organizzati dei servizi online e telefonici per rispondere a una domanda più importante di richieste di aiuto”.
Un nuovo termine diffuso apparso in Giappone col virus è korona rikon (“divorzio da coronavirus”). Una ragione tipica per voler mettere fine a un matrimonio è che il marito, trascorrendo più tempo in casa rispetto all’ordinario, non aiuta nei lavori domestici e non partecipa all’educazione dei figli. Secondo uno studio condotto dal sito internet Lip Pop, il 38% delle persone interrogate pensa al divorzio o, quantomeno, ha dei dubbi circa la solidità del proprio matrimonio. In particolare, il 46% dei quarantenni sembra essere impattato negativamente dalla situazione. Malgrado ciò, il professor Yamada ha tendenza a minimizzare l’effetto della pandemia sulle relazioni tra i sessi. “In Giappone, il matrimonio è molto spesso una questione di denaro e non d’amore”, racconta.
“L’idea dell’amore romantico non ha veramente posto nella cultura giapponese; è stata importata dall’Occidente. Marito e moglie non hanno probabilmente una relazione idillica nel senso occidentale del termine, ma visto che il loro matrimonio è basato principalmente su considerazioni economiche, ci vuole una pesante crisi per mettervi fine.
Bisogna ricordare che in seguito alla catastrofe dell’11 marzo 2011, molti pensavano che il numero dei divorzi sarebbe aumentato. In realtà, il loro numero è rimasto più o meno stabile. Se una tragedia immane come questa non ha avuto un grande impatto sulle coppie, non credo che il Covid 19 cambierà veramente le cose.
Statisticamente, il primo motivo di divorzio per i giapponesi è il denaro, la seconda è l’adulterio. Ma a causa della pandemia, le persone hanno meno possibilità di tradire il proprio partner, dunque, in un certo senso, il coronavirus potrebbe avere un effetto positivo su queste relazioni.
O forse no: gli uomini potrebbero insistere sul fatto che non possono recarsi nei loro hostess bar preferiti!” (ride).
In Giappone, si dice che “il marito deve essere in buona salute e restare fuori casa”: questo significa che un marito in buona salute lavora duro e costituisce un buon sostegno economico ma la sua presenza in casa non è richiesta. In effetti, se passa troppo tempo tra le mura domestiche, diventa una fonte di lavoro supplementare per la donna poiché non partecipa ai lavori domestici.
“Bisogna capire che tradizionalmente, le coppie giapponesi non danno una grande importanza all’intimità”, prosegue Yamada. “Una volta che un bambino è nato, non si abbracciano e non si baciano più. Marito e moglie diventano padre e madre e cominciano persino a chiamarsi in questo modo. Questo non significa che perdano ogni interesse al “divertimento”. Secondo le mie ricerche, un uomo sposato su dieci frequenta hostess bar e prostitute”. Sottolinea poi che anche le giovani generazioni non sono interessate alla ricerca di un partner. “Come ho scritto, per molti giapponesi, passare del tempo insieme diventa velocemente stancante e noioso. Ci sono molti matrimoni bianchi qui, e non parlo solo di coppie sposate. L’idea che flirtare, fare la corte, persino avere relazioni sessuali, sia noioso, fa parte di una mentalità diffusa recentemente anche fra i ventenni. Attualmente, una persona su quattro in Giappone rimane single.”
Citando opere come Kazoku Nanmin (I rifugiati famigliari, 2014, inedito in italiano) e Kekkon kuraishisu (La crisi del matrimonio, 2016, inedito in italiano), l’universitario spiega perché, per numerosi giovani giapponesi, sposarsi e fondare una famiglia non sia più un’idea attraente. Secondo lui si tratta di una tendenza a lungo termine e la pandemia non farà molto per cambiare l’opinione della gente al riguardo. “Gli uomini e le donne trentenni o quarantenni non hanno assolutamente alcun problema nel vivere coi genitori”, fa notare.
“È anche vero che molti di loro non guadagnano a sufficienza per affittare un appartamento da soli, senza parlare di matrimonio. Ma ci sono anche quelli che godono di un ottimo stipendio e preferiscono vivere con papà e mamma. Il ragionamento è il seguente: perché dovrei vivere solo visto che mia madre prepara da mangiare e lava i miei panni? E in un certo senso, anche per i genitori, è una buona soluzione. Avere i figli non sposati in casa significa che quest’ultimi si occuperanno di loro quando saranno anziani o malati”.
In fin dei conti, è tutta una questione di soldi, stima Yamada. “Quarant’anni fa, l’economia giapponese era in migliori condizioni e l’idea di sposarsi seduceva la maggior parte delle persone. La maggioranza delle donne voleva convolare a nozze e smettere di lavorare e siccome numerosi uomini avevano un buon impiego, stabile e ben remunerato, era più facile trovare un partner adeguato. Poi la bolla economica è esplosa, il mercato del lavoro è diventato instabile, molta gente ha perso l’impiego a causa della riorganizzazione delle imprese. Da quel momento, i contratti precari sono diventati la norma, a tal punto che oggi, circa il 40% della manodopera giapponese è costituita da lavoratori non regolari.
Nonostante tutto questo, le aspettative economiche della maggior parte delle donne in materia di matrimonio non sono cambiate. In altri termini, non vogliono lavorare e si aspettano che il marito sia il principale sostegno della famiglia. Persino all’università di Chûô, dove insegno, circa la metà delle studentesse spera di poter diventare un giorno casalinga. Sanno che aria tira nel mondo del lavoro – soprattutto in Giappone – e preferiscono evitarlo. Non amano le interminabili ore in ufficio, il sessismo, o persino le molestie sessuali che persistono. Sposarsi diventa dunque una scappatoia ideale. Ma, tenuto conto della situazione economica attuale, le possibilità di trovare un “buon partito” sono molto più esigue rispetto al passato”, fa notare il sociologo.
“D’altra parte la cultura giapponese continua a valorizzare le donne che restano in casa e allevano i bambini. Se il marito guadagna denaro a sufficienza per sovvenire alle necessità di tutta la famiglia, perché una donna dovrebbe cercare un lavoro? Il fatto che sempre più famiglie abbiano un doppio stipendio non significa che le donne vogliano lavorare. Significa semplicemente che lo stipendio del marito non è abbastanza lauto”, conclude. Jean Derome