L’ex Console Generale d’Italia in Giappone ha trovato un modo originale per parlare di questo paese che conosce così bene
Uno dei casi letterari più interessanti di quest’anno è stata l’uscita per Mondadori di Doromizu – Acqua torbida, una sorta di thriller esistenziale ambientato nel Giappone poco conosciuto della pornografia, della yakuza e dei tatuaggi. L’autore di questo romanzo notturno e sensuale è Mario Vattani, ex console generale in Giappone e attualmente diplomatico presso il Ministero degli Affari Esteri. Vattani ha vissuto per molti anni fra Tokyo, Kyoto e Osaka e Zoom Giappone ha approfittato della sua esperienza di vita per scoprire insieme a lui perché questo paese continua ad affascinarci così tanto.
Come è nata l’idea di Doromizu? Perché ha sentito l’esigenza di scrivere questa storia?
Mario Vattani: Il Giappone è talmente vario e ricco di contrasti che raccontarlo, riprenderlo, fotografarlo è sempre appassionante e divertente. Negli ultimi anni mi è capitato di pubblicare degli articoli o dei brevi racconti sul Giappone o su alcuni personaggi giapponesi, e ogni volta ho trovato che la curiosità del pubblico italiano per la cultura nipponica è molto forte. Tuttavia, anche se oggi rispetto al passato il numero di persone che visitano il Giappone è aumentato, per molti rimane un luogo-non luogo che dà ancora una sensazione di irraggiungibilità. Anche l’immagine del Giappone moderno ci arriva spesso filtrata attraverso notizie di colore, nozioni spesso superficiali o macchiettistiche, e lo trovo un vero peccato. Dal mio punto di vista, è come se con Doromizu fossi riuscito a vivere un personaggio diverso, molto più giovane di me, senza lavoro, senza un progetto preciso, per tornare ad avventurarmi in un Giappone vero, in una Tokyo dietro le quinte, una megalopoli notturna che avevo conosciuto solo parzialmente durante gli anni in cui vi ho abitato, soprattutto quando ero lì per studiare la lingua.
Il protagonista di Doromizu, Alex, è stato descritto come « uno straniero in cerca di patria adottiva ». Le somiglia?
M. V.: Alex e io ci somigliamo per il fatto di essere entrambi cresciuti all’estero, e di non considerare il nostro paese di origine – l’Italia – come un luogo dove è sempre possibile “ritornare”. Non c’è un luogo dove tornare, per esempio in caso di fallimento, o di spaesamento. Anzi, in realtà in questo essere “stranieri” a tutto tondo, lo spaesamento non può esserci, perché l’essere “fuori” – visto che in giapponese gaijin significa letteralmente “persona fuori” – è una condizione costante. Alex è un “gaijin totale” e questo in qualche modo lo facilita nella sua scelta di un luogo che ama, e dove vuole rimanere.
E come ha vissuto lei il suo rapporto con il Giappone, dopo le esperienze di vita e professionali in Francia, Inghilterra, Stati Uniti ed Egitto?
M. V.: Per me l’esperienza giapponese è stata piuttosto diversa da quelle in altri paesi in cui ho vissuto per lavoro o per motivi familiari. Prima di tutto, la mia esperienza con il Giappone è iniziata molto prima di raggiungere fisicamente l’arcipelago. Sono stato attratto dal Giappone sin da bambino, anche per la fortuna di avere avuto una zia che parlava giapponese e mi ha esposto subito alle immagini, ai sapori, alla cultura del Sol Levante. Sicuramente ciò che mi ha colpito allora, ed è ora diventato parte della mia vita quotidiana, è quell’universo visivo dai contrasti anche violenti, una bellezza a volte selvaggia, o crudele. L’armonia tra raffinatezza e severità che mi ha immediatamente rapito nel cinema giapponese, e nella fotografia, l’ho poi ritrovata nelle arti marziali, come in ogni piacere dei sensi, inclusa la cucina. Direi che è stato un processo simile all’innamoramento, che è passato prima attraverso gli occhi, poi il tatto, l’olfatto e tutti gli altri sensi, per poi trovarsi coronato nell’esperienza reale. Nel mondo di Doromizu questa sensualità dalle diverse sfaccettature è molto presente, e credo di essere riuscito a trasmetterla al lettore.
Pensa che il Giappone sia un paese in cui è difficile integrarsi?
M. V.: Personalmente trovo che non avendo mai subìto i giapponesi una colonizzazione da parte dell’occidente, ma avendo piuttosto scelto loro stessi, da soli, a metà Ottocento, se e come trasformare i loro costumi e la loro società, la pressione su noi ospiti occidentali a conformarci alle loro regole è molto più forte che in altri paesi dell’Asia. Per capirci, secondo me in Giappone abbiamo poco da insegnare e molto da imparare. Ma naturalmente non tutti hanno la sensibilità e l’umiltà per capirlo. Anzi purtroppo alcuni stranieri in Giappone sembrano dimenticarlo, si impigriscono, si lasciano andare, e iniziano a trovare inaccettabili le regole giapponesi, che invece devono valere per tutti. A quel punto la loro vita in Giappone può diventare difficile e spiacevole, salvo finire in quella bolla artificiale e poco interessante che è il recinto degli espatriati.
Chi invece sceglie di incamminarsi sulla via del Giappone – che per me è una via come lo sono per dire il kendo o la cerimonia del tè – non potrà avere che grandi soddisfazioni. Anche se certamente, non riuscirà mai a passare dall’altra parte. Insomma, un gaijin resta sempre un gaijin.
Ovviamente alcuni spunti di Doromizu provengono dalla sua esperienza di vita in Giappone. Ad esempio il mondo del tatuaggio tradizionale è molto particolare. Potrebbe approfondire questo tema? E perché lo ha introdotto nel suo romanzo?
M. V.: Il fatto che per tanti anni mi sia dedicato alla musica rock, alle moto e in generale all’underground, mi ha permesso anche in Giappone di conoscere anche chi mi ha aperto le porte ad aspetti meno accessibili della cultura giapponese, compreso il mondo del tatuaggio tradizionale, l’irezumi. Negli ultimi anni i disegni tipici del tatuaggio tradizionale giapponese, eseguito senza i moderni strumenti elettrici, e raffigurante i motivi tipici del periodo Edo, hanno un grande successo in Italia e in Europa. Ma lo spirito dell’irezumi è diverso da quello del nostro tatuaggio. Non viene ostentato, al contrario anche per le forme che lo caratterizzano rimane nascosto, e appartiene alla sfera privata di chi lo porta, piuttosto che a quella della moda o del divertimento. Nel mio romanzo, considerata l’ambientazione legata alla Tokyo notturna, ai quartieri a luci rosse e al mondo che vi gira attorno, ho voluto inserire l’irezumi come una sorta di spina dorsale ritmica della narrazione, anche per il suo essere contemporaneamente antico e moderno, per il suo valore quasi iniziatico, come visibile e progressiva trasformazione del corpo. In Doromizu, la realizzazione del tatuaggio è scandita dal ritmo della sua esecuzione, ma è anche l’irezumi stesso a scandire il tempo nel racconto, permettendomi quasi magicamente di rallentarlo o di accelerarlo.
So che lei ha già pubblicato un secondo libro, ma per il momento solo in giapponese. Si intitola Il fiume di fuoco e di profumo ed è un romanzo storico ambientato fra il 1866 e il 1945, ovvero un periodo molto importante per la storia e i rapporti fra Italia e Giappone. Quest’anno si celebrano i 150 anni di amicizia fra i due paesi. Come vede l’attuale stato di salute di questo rapporto?
M. V.: Questa storia si sviluppa su due livelli: quello personale del viaggio inteso come percorso iniziatico e quello dei rapporti tra Italia e Giappone. Gli anni fra il 1866 e il 1945 sono anche il periodo su cui si concentra la ricerca che ho effettuato presso l’Università di Tokyo. Ho constatato che in quegli anni si è sviluppata tra i due paesi una vera e propria passione, di cui la parte finale, quella dell’alleanza e poi del conflitto mondiale, è solamente una tragica conclusione, non il logico risultato. L’alleanza militare è un fatto limitato mentre la passione per l’arte e per la cultura è infinita e infatti va ben oltre gli anni del conflitto mondiale. L’Italia dopo la sua unità ha saputo sviluppare verso il Giappone una posizione diversa, in un certo senso più evoluta di quella degli altri grandi paesi europei. La nostra diplomazia ha saputo seguire una sua linea autonoma, mostrando una profonda capacità di analisi, apertura mentale, e un approccio moderno e “paritario” con una cultura così diversa come quella giapponese, sfuggendo alla presunzione e al complesso di superiorità che caratterizzava la linea delle potenze coloniali. Trovo che questa nostra storia comune vada valorizzata, anche per rafforzare il rapporto di rispetto e di fiducia con un popolo che sempre mostra nei confronti dell’Italia una curiosità ed una fascinazione senza pari. È con questo spirito, con questa intelligenza e questo coraggio che arrivarono in Giappone a metà Ottocento i primi mercanti di seta piemontesi, oppure i commercianti di corallo e di perle di Torre del Greco. Ora spero di riuscire a pubblicare il libro anche in Italia, perché credo siano molti gli italiani appassionati dell’Oriente che si riconoscerebbero in questa avventura giapponese.
Intervista realizzata da J. D.
Riferimenti
Doromizu, acqua torbida di Mario Vattani, coll. Strade blu, Mondadori, 17 €.