Figure di un Giappone in via di sparizione, questi particolari artisti di strada tentano di resistere.
Avvolta in un kimono bianco costellato di fiori rossi e blu, Nagata Mika suona il suo ingombrante tamburo chindon-daiko, cantando le lodi di un nuovo ristorante di sushi. Suo marito Hisashi, invece, mostra di saper padroneggiare alla perfezione il sistema di percussioni appeso al collo, mentre il clarinettista Kacchan suona senza sosta una melodia dopo l’altra. Mika fa regolari pause per distribuire i volantini del ristorante e per chiacchierare coi passanti curiosi, sorpresi e visibilmente felici dell’improvvisa apparizione di questa formazione artistica nel loro quartiere. Il gruppo dei quattro originali e vistosi musicisti accompagnati da una ragazza che distribuisce dei depliant si fa largo lentamente fra la gente nelle animate vie commerciali di Hiyoshi, un quartiere residenziale a nord di Yokohama.
Mika et Hisashi sono una coppia di chindon’ya, a capo dell’impresa Chindon Geinôsha. Mika, la leader, fa questo lavoro da 27 anni et Kyûchan, nome d’arte di Hisashi, da 25 anni.
“Vediamo raramente altri come noi perché i chindon’ya sono diventati rari. Negli anni Cinquanta, la loro epoca d’oro, se ne contavano fra 2000 e 3000 in tutto il Giappone, ora non ne resta che un centinaio”, spiega Mika.
“Chindon Geinôsha è stata fondata nel 2007, quando ci siamo sposati. Prima, ci esibivamo con gruppi diversi. Il nostro repertorio va dai generi tradizionali quali il min’yô (canzoni folk) o l’hayashi (musica festiva tradizionale) alla musica pop giapponese e occidentale. Avete forse notato che oggi Kacchan ha persino incluso una hit di SMAP. È ormai un veterano con una carriera di vent’anni alle spalle. Appartiene in effetti a un altro gruppo di chindon’ya, ma lavora spesso con noi come “extra”. È incaricato di selezionare le canzoni in funzione della stagione, del luogo in cui si va a suonare, del momento della giornata, o semplicemente secondo il proprio capriccio”, aggiunge.
“Riceviamo diverse proposte. Quando lavoriamo per ristoranti o altri esercizi commerciali, interpretiamo il ruolo “classico” dei chindon’ya, quello per cui sono principalmente conosciuti, ma, recentemente, riceviamo molte prenotazioni per eventi speciali e persino da parte di case di riposo. In questo caso, il nostro lavoro consiste nel far divertire le persone anziane e le loro famiglie, un ruolo a metà tra l’esibirsi in concerto e organizzare una festa. Così, ogni anno, siamo ingaggiati da una città in Hokkaido e in tre giorni lavoriamo in una quindicina di case di riposo. È un lavoro difficile, ma al tempo stesso molto divertente”, dice, sorridendo.
“Dopo che mi sono lanciato in questa professione, abbiamo assistito a molti cambiamenti, a cominciare dalla clientela. Nel passato, avevamo molto lavoro nelle sale di pachinko (sale da gioco in cui i clienti tentano di vincere il più alto numero possibile di biglie d’acciaio che in seguito verranno scambiate con denaro contante) e le shôtengai (vie commerciali).
Ma da qualche tempo, la situazione economica si deteriora. Le sale di pachinko, ad esempio, figuravano fra i nostri migliori clienti. Rappresentavano circa il 70% della nostra clientela, ma le chiusure si moltiplicavano. Oggi, ne facciamo meno di dieci in un anno intero. Quanto alle shôtengai, sono ormai gestite da associazioni di piccoli commerci famigliari. Per molti anni, hanno costituito il cuore di ogni quartiere, e gli abitanti ci andavano per fare la spesa quotidiana, ma dagli anni Ottanta in poi, sono state duramente colpite dalla crescente concorrenza dei supermercati e dei centri commerciali in periferia. Molti negozi hanno dovuto chiudere e le shotegai che permangono sono lungi dall’essere prospere. Nel passato, quando organizzavano delle campagne promozionali, le shôtengai ingaggiavano dei chindon’ya praticamente ogni settimana. Oggi, sfortunatamente, ci chiamano soltanto una volta all’anno”, confida Hisashi.
Mentre parliamo, Hisashi riceve una chiamata da una associazione di commercianti di Kamata, a sud di Tokyo. Lo informano che, a causa della crisi legata al Covid 19, debbono per forza annullare l’evento a cui avrebbero dovuto partecipare.
“A Aomori, dove sono cresciuto, non c’erano i chindon’ya. Non sapevo chi fossero prima di andare a vivere a Tôkyô. Il termine “chindon’ya” era impiegato in maniera dispregiativa, generalmente per prendere in giro la maniera di vestirsi di qualcuno. “Somiglia a un chindon’ya”, veniva detto. Dopo il liceo, mi sono trasferito a Tôkyô e ho cominciato a lavorare per una società di architettura, ma preferivo di gran lunga uscire al bar con gli amici. Durante una di queste uscite, ho conosciuto un chindon’ya. Ho immediatamente lasciato il mio lavoro e, come per la maggior parte dei debuttanti, ho cominciato a distribuire dei volantini, studiando al tempo stesso e formandomi a questa arte, sotto la direzione del mio nuovo capo”, racconta.
“Il leader della troupe era una di quelle persone carismatiche che, ovunque vadano, attirano immediatamente l’attenzione di tutti. Emanava una sicurezza in sé e un’energia incredibili. Mi ha fatto provare il potere del divertimento. Vederlo esibirsi è stata un’esperienza davvero toccante, e, per qualcuno come me che si era cimentato col teatro non da professionista, quest’esperienza fu una rivelazione. Decisi immediatamente che avrei voluto seguire le sue orme. Ho ancora molto cammino davanti a me prima di raggiungere il suo livello, ma sono felice di aver scelto questa strada. Amo il fatto che, ovunque andiamo, portiamo gioia e bei momenti. Come avrete visto, tutti si fermano e apprezzano la nostra esibizione. Questo lavoro dà la possibilità di mettere in atto uno scambio diretto, senza intermediari, con la gente. Non siamo su un palco intenti a cantare o a recitare. Le nostre performance avvengono direttamente in strada, in mezzo alla gente ordinaria, e non manchiamo mai di suscitare una reazione spontanea e di far nascere dei sorrisi sui volti”, si compiace Hisashi.
“Anche da un semplice punto di vista commerciale, fa bene sapere che il nostro modo di interpretare e approcciare la pubblicità si traduce in generale in un vero interesse per i nostri clienti. Non soltanto i passanti afferrano il volantino – ciò che la maggior parte di persone evita come la peste quando qualcuno si limita a distribuirli all’angolo di una via – ma si fermano, si informano sul luogo pubblicizzato, vogliono sapere dove si trova, ecc. Ovviamente, questo non significa che siamo sempre ben accolti. Ogni tanto, incrociamo un brontolone che ci trova irritanti, ma questo fa parte degli inconvenienti del mestiere. Quando ero più giovane, questo comportamento mi disturbava, ma adesso, vi presto molta meno attenzione. Mi scuso con un sorriso e continuo come niente fosse.
Il lato negativo di questo lavoro è la precarietà economica. Non è finanziariamente sicuro. Non riceviamo uno stipendio alla fine del mese. Se non troviamo ingaggi, non guadagniamo nulla. Siamo puntualmente preoccupati di conoscere quando sarà la nostra prossima prestazione. Non possiamo quindi veramente rifiutare un’offerta, poiché chi può sapere se avremo a breve un’altra proposta o se questo cliente ci richiamerà?
Ecco perché alterniamo costantemente periodi in cui abbiamo troppo lavoro – come quando ci rechiamo a Hokkaidô – a periodi in cui non riceviamo nemmeno una chiamata.
Dopotutto, si tratta di ciò che viene definito il mizu shôbai, ovvero un’impresa dedicata al divertimento il cui fatturato può essere alto, ma i guadagni incerti”, spiega.
“Chindon Geinôsha conta dieci membri. La maggior parte di essi è composta da giovani diplomati provenienti da un’università musicale vicina, attirati dal nostro universo. Mio marito ed io suoniamo entrambi il chindon-daiko. Lavoriamo raramente insieme – oggi è stata un’eccezione – visto che spesso riceviamo più proposte per lo stesso giorno, quindi ci separiamo e dirigiamo diversi gruppi. Il numero di persone ingaggiate per una prestazione varia in funzione della natura dell’evento e del budget del cliente”, aggiunge Mika.
“Casa nostra è anche la sede della nostra impresa. Quando effettuiamo una prestazione, i membri più giovani vengono da noi verso le 8 del mattino. Ci trucchiamo, indossiamo i kimono e partiamo. Lavoriamo per sette ore, facciamo una sosta per il pranzo e un’altra pausa durante il pomeriggio. Trascorriamo le nostre giornate libere a pulire i costumi, a fare dei lavori di riparazione, a fare le prove per le feste che arrivano o gli spettacoli in scena, e soprattutto, le trascorriamo nei vari commissariati di polizia per ottenere l’importantissimo dôro shiyô kyoka (permesso di circolazione) senza il quale non potremmo esibirci per strada.
È in effetti la sola cosa che detesto veramente in questo mestiere. Dobbiamo andarci due volte, prima per chiedere il permesso e infine per ottenerlo. E dobbiamo sborsare circa 2000 yen”, fa notare lei.
“Le basi della nostra professione sono le stesse ovunque, ma esistono delle differenze a seconda delle regioni. I chindon’ya di Tôkyô e dei suoi dintorni, per esempio, sono molto più spettacolari quando si esibiscono nelle loro prestazioni promozionali. Le troupe della regione del Kansai (Ôsaka, Kôbe), in confronto, sono più eleganti e discrete. Non hanno bisogno di esagerare, dal momento che i passanti sono meno timidi, più chiacchieroni e più curiosi rispetto agli abitanti del Kantô (regione della capitale).
Ho scelto questo mestiere perché posso veramente divertirmi al lavoro. Colui che l’ha inventato, che ha avuto l’idea di aggiungere della musica al fastidioso compito della promozione commerciale, è stato un genio. Posso svegliarmi di cattivo umore, o smaltire una sbornia (ride), o ancora aver voglia di restare a letto anziché lavorare, ma una volta che la musica comincia, mi immergo nel personaggio e tutti i problemi e i sentimenti negativi spariscono come per magia”, assicura la signora dal kimono bianco, continuando a suonare il suo tamburo.
Gianni Simone