Igort narra le sue avventure nella fabbrica di sogni a fumetti più grande del mondo.
Il Giappone, luogo “esotico” per antonomasia, ha da sempre attratto numerosi artisti, scrittori e creativi di ogni tipo, affascinati dalla sua diversità e da una cultura che spesso sentono come aliena. Tuttavia in alcuni casi l’incontro con il Giappone rappresenta una sorta di ritorno a casa, come se il viaggiatore straniero ritrovasse nel paese ospite delle cose che (magari senza saperlo) aveva già dentro di sé.
È quanto è successo a Igor Tuveri, fumettista cagliaritano meglio conosciuto agli appassionati italiani e stranieri come Igort, protagonista degli anni ’80 con la rivista Il Pinguino e il gruppo Valvoline, e fondatore nel 2000 di Coconino Press, una delle più importanti case editrici di fumetti d’autore. Nella sua lunga carriera Igort ha lavorato, viaggiato e pubblicato libri su diversi paesi (Francia, Ucraina, Russia) ma l’esperienza di vita e di lavoro in Giappone lo ha segnato particolarmente, come testimoniano i bellissimi Quaderni giapponesi (2015).
Nonostante il titolo indichi una parentela con i precedenti Quaderni ucraini (2010, 2014) e russi (2011), si tratta di un’opera molto diversa. “Quelli erano dei documentari a fumetti e la voce narrante era quella delle persone che ho incontrato in quei luoghi”, racconta Igort. “Io mi sono limitato a registrare quello che mi hanno detto, mettendolo sotto forma di racconto. I Quaderni giapponesi, invece, parlano di me e della mia esperienza personale; i luoghi e i sapori che ho scoperto, come quello del tofu fresco. È ciò che in Francia si chiamerebbe un memoire ma anche un libro di viaggio, un reportage e un saggio sulla cultura grafica del Giappone, il suo cinema, il teatro e la letteratura attraverso gli autori che ho scoperto o addirittura conosciuto e frequentato.”
Pur essendo uscito solo l’anno scorso, questo libro è il risultato di un cammino che in realtà prosegue dal 1991 – da quando, cioè, Igort venne invitato (uno dei primi fumettisti occidentali, se non il primo) a lavorare per delle riviste giapponesi. “Spesso mi chiedono come nascono i miei disegni e le mie storie. I Quaderni giapponesi, come tutti gli altri, del resto, nascono da una serie di idee, situazioni, intuizioni. Ci sono decine di block notes nei quali gli appunti vengono messi a fuoco. Questo per dire, alla maniera orientale, che il foglio bianco non è che il capolinea di un lungo cammino creativo. Il disegnare in sé non è un problema, ma non sarebbe possibile nessuna tavola senza un processo di sedimentazione. Si vive con le storie per anni, anche decenni, e queste crescono dentro di te in modo organico. Si tratta di una vera e propria gestazione”.
Nel lavoro di Igort ci sono sempre stati diversi segnali di interesse per la cultura nipponica. Lui stesso dice (e non si sa fino a che punto scherzi) che probabilmente in una vita precedente era stato giapponese. Così, quando la Kodansha (una delle maggiori case editrici dell’Arcipelago) gli propose un contratto dalle condizioni favorevoli, non esitò a volare a Tokyo. “Sono stato fortunato perché non mi è stato chiesto di simulare lo stile giapponese. Volevano semplicemente lavorare con me e farmi raccontare le mie storie a modo mio. L’esperienza è stata naturalmente molto positiva. Fortunatamente il mio lavoro è stato molto apprezzato dal pubblico locale che, malgrado quello che si pensa, è molto caldo e ti scrive delle bellissime lettere”.
Igort ricorda ancora con affetto il primo importante soggiorno a Tokyo, quando si stabilì a Sendagi, un quartiere tradizionale della capitale. “Era ed è tutt’oggi una zona antica in cui il tempo sembra essersi fermato. Molto propizia per chi, come me, racconta storie. Ogni mattina mi alzavo presto e andavo verso Yanaka, a piedi, per le mie sessioni di zazen (meditazione buddhista). Il quartiere lo esplorai da cima a fondo, in lunghe camminate quotidiane. C’erano scuole e parchi vicino a casa mia. La zona antica è tuttora una delle mie preferite di Tokyo, ci torno tutti gli anni. E vedo che malgrado i cambiamenti inevitabili per una città in perenne movimento, l’atmosfera sospesa nel tempo rimane immutata”.
All’inizio degli anni ’90 il fumetto giapponese si era già affermato in Occidente grazie a opere come Akira di Otomo Katsuhiro, che avevano stupefatto i lettori non solo per la loro qualità artistica ma anche per la lunghezza e complessità delle loro storie. “Per me la cosa più interessante era il lavoro di equipe sul quale si reggevano queste saghe interminabili. In questo senso il Mishroom Studio di Otomo era radicalmente diverso dalla visione individualista dell’arte che c’è in Occidente. In Giappone ancora oggi c’è l’autore che scrive e disegna, ma è molto importante il suo editor che assiste al “parto” e dice la sua, e poi uno staff di assistenti che solitamente disegnano e inchiostrano le tavole che non comprendono i personaggi principali. In pratica è come se l’autore (mi riferisco naturalmente ad autori importanti che possono permettersi queste cose) fosse come un regista cinematografico”.
Ogni volta che Igort ritorna col pensiero a quegli anni straordinari non può fare a meno di soffermarsi su colui che chiama “la mia ombra”, ovvero Tatsumi-san, il suo editor personale che lo aiutò a capire come funzionava “la fabbrica di sogni a fumetti e cartoons più grande del mondo”. “Quando partii per il Giapppone odiavo l’idea dell’editor perché mi sembrava un intralcio al processo creativo. Ma capii subito che Tatsumi era molto competente. Il suo era un sistema di lavorazione quasi socratico nel senso che non mi imponeva niente; mi poneva una serie di domande e in questo modo mi faceva da specchio. Ad esempio poteva chiedermi cose molto specifiche sull’uso del montaggio per vedere quanto fossi in grado di controllare la macchina racconto. Si parlava di fumetti ma in totale libertà, con una mancanza di pregiudizi che invece mancava in Europa”.
Parlando di diversità, Igort ricorda ancora con un misto di terrore e nostalgia l’impatto scioccante con i ritmi forsennati dell’industria dei fumetti giapponesi. “Era il 1996 e Yuri, la mia seconda serie, era già uscita sul settimanale a fumetti Comic Morning. Ero appena arrivato dall’Italia e tra il fuso orario e la mancanza di sonno ero stanchissimo. Ma Tsutsumi arrivò al mio albergo e mi mise subito al lavoro: per due settimane dovetti creare ogni giorno una storia di 16 tavole, disegni e testi, da far tradurre e consegnare il mattino dopo. Questo era il suo modo di vedere se sarei stato in grado di reggere i loro ritmi, per noi impensabili. Confesso che fui sul punto di mollare tutto e tornare in Italia.
Un’altra volta rimasi colpito nell’incontrare l’autore di Gamma, the Iron Man, che mi disse «Sto bene; dormo quasi cinque notti su sette». La prospettiva che questa potesse diventare la mia vita mi atterriva. Poi una sera, a una festa, incontrai Kawaguchi, un autore di best seller della Kodansha, e lo invitai a trascorrere un paio di settimane di vacanza da me in Sardegna. Fui preso da parte dai miei editor che mi chiesero se fossi impazzito: «Non capisci che se lui va in vacanza la nostra rivista perde circa trecentomila lettori alla settimana?». In Giappone in un certo senso avere successo vuol dire diventare schiavi del proprio lavoro. Quindi, ad esempio, niente viaggi”.
Un altro aneddoto che Igort racconta raramente (forse per pietà) riguarda la dedizione che gli editor di fumetti hanno per il loro lavoro. “Io avevo una scrivania nella redazione della Kodansha. Quando arrivavo vedevo sempre delle scatole di cartone sfasciate che stonavano nell’economia di una redazione così operosa e precisa. Io chiedevo perché nessuno le buttasse via ma loro si rifiutavano di rispondermi. Poi una volta, dopo avere bevuto qualche bicchiere hanno abbassato la guardia. Io sono tornato alla carica e così mi hanno detto: «Ma insomma, sei qui da tanti mesi e non l’hai ancora capito? Ci dormono gli editor»”.
Questa esperienza professionale a volte estrema ha finito con l’influenzare sia lo stile che il modo di lavorare di Igort. “Per me è stato l’inizio di una nuova vita perché ho capito molto di più di me stesso in quelle prime due settimane passate in Giappone che nei diciotto anni di professione in Europa. Quando devo iniziare una nuova storia di solito trovo tutti i modi per distrarmi: vado a prendere un libro, devo farmi un caffè. Lì ho scoperto che potevo disegnare sedici pagine e scrivere soggetto e sceneggiatura di una storia in un giorno”.
Al di là dei ritmi di lavoro forsennati, Igort ribadisce la fondamentale alterità del fumetto giapponese rispetto a quello occidentale. “Sono stati proprio editor come Tatsumi a farmi capire che se volevo lavorare in Giappone dovevo conoscere la grammatica del manga, perché era evidente che se anche in apparenza poteva somigliare al nostro fumetto, era in realtà totalmente diversa. Il disegnatore argentino José Muñoz, ad esempio, diceva che il silenzio nei moderni romanzi grafici è un lusso che non possiamo concederci perchè è la mancanza di tempo ad imporre il ritmo alla storia. A me invece interessa raccontare la vita, non il ritmo, e la cultura giapponese ha sicuramente avuto un forte peso nell’importanza che attribuisco al silenzio. Pensa ad esempio ad un regista come Ozu. Lui usava mettere delle inquadrature che non avevano un vero e proprio scopo narrativo, ma fungevano da intervallo; delle piccole pause qua e là per far respirare il racconto, dilatandolo e modificandone la lettura. Questo elemento è stato molto importante per il mio lavoro. Se la mancanza di tempo impone una narrazione scandita dal ritmo, io cerco invece di andare nella direzione opposta”.
Visto che Igort è in procinto di ripartire per il Giappone, gli chiediamo come è cambiato secondo lui il paese in questi 25 anni (a parte il fatto che la gente sui treni e in metropolitana non legge più fumetti, libri e giornali ma passa invece il tempo a navigare su Internet). “Sarebbe un discorso molto lungo. Sono cambiate moltissime cose. In generale mi pare che il Giappone si sia aperto maggiormente all’Occidente. Negli anni ‘90 era molto difficile muoversi se non conoscevi il giapponese e anche parlando la lingua ricordo l’espressione di stupore misto a timidezza della gente quando chiedevo delle informazioni. Oggi forse il rischio è che il Giappone, specie nelle metropoli, perda il suo carattere e si occidentalizzi troppo”.
Un’ultima domanda prima di lasciarci: che consiglio darebbe a un fumettista che aspirasse a lavorare nell’industria giapponese? “Occorre molta devozione nei confronti del lavoro e sapere ascoltare, perché gli editor giapponesi molto spesso sono degli esperti di storytelling. Serve dunque molta forza per conoscere il proprio universo e le proprie qualità e al tempo stesso essere disponibili ad accogliere commenti e osservazioni di chi lavora nella fabbrica dei sogni disegnati”.
Jean Derome
Riferimenti
Quaderni giapponesi. Un viaggio nell’impero dei segni di Igort, Coconino Press, 19 €