Com’è l’atteggiamento dell’editoria italiana nei confronti della letteratura giapponese?
G. A.: È decisamente migliorato. Un tempo era difficilissimo convincere gli editori a pubblicare libri giapponesi. Adesso, in confronto, si pubblica molto di più. C’è più curiosità e anche più aspettativa. Chiedo scusa se cito un libro che ho tradotto io, ma credo che il successo di Kitchen di Banana Yoshimoto abbia contribuito a migliorare la situazione. Fra l’altro questo è stato il primo libro ad essere tradotto prima in Italia e poi in altri paesi ad avere un enorme quanto inaspettato successo. Dopo Kitchen tutti gli editori avrebbero voluto tradurre solo Banana e infatti ho faticato tantissimo a far pubblicare Norwegian Wood di Murakami Haruki (inizialmente tradotto con il titolo Tokyo Blues). Murakami in quel periodo non era ancora conosciuto e la maggior parte delle 7.000 copie stampate sono andate al macero. Invece adesso ogni suo nuovo libro vende anche 100-150.000 copie, che per il mercato italiano sono moltissime, e c’è soprattutto da parte degli editori la consapevolezza che un libro giapponese può diventare un best-seller.
Parlando di Murakami e Yoshimoto, forse i due autori più popolari da Lei tradotti, mi pare che abbia confidato che Murakami non è difficile da tradurre mentre Yoshimoto, pur avendo una scrittura apparentemente semplice, in realtà presenta diverse difficoltà.
G. A.: Il fatto è che leggere e tradurre sono due cose molto diverse. Per uno che conosca il giapponese, leggere i libri di Yoshimoto in originale non è difficile. Kitchen, ad esempio, ricordo di averlo letto in poche ore. Invece si è rivelato inaspettatamente difficile da tradurre e la cosa si è ripetuta con tutti i suoi libri. Quando si leggono le sue storie si ha la sensazione di capire tutto, ma quando poi si traducono ci sono dei passaggi poco chiari in cui spesso ci si blocca. A volte mi è capitato di chiedere il significato di certe frasi ad amici giapponesi e anche loro non erano sicuri sull’interpretazione. Mentre Murakami è più logico e la sua prosa è molto lucida e razionale, la prosa di Yoshimoto è molto impressionistica e visuale (in questo ricorda un po’ i manga) e l’ambiguità delle sue immagini può essere difficile da analizzare. In questo senso è molto giapponese. Ricorda un po’ Kawabata Yasunari in questo giocare su tinte sfumate.
Cosa ne pensa del Nobel a Murakami e delle aspettative che ogni anno alimenta in Giappone?
G. A.: Penso che tutte queste chiacchiere gli portino sfortuna, perché l’Accademia Svedese che sceglie i vincitori vuole sorprendere con le sue scelte. Se si osservano la maggior parte dei premi assegnati negli ultimi anni, non sono mai stati dati a chi ci si aspettava di veder primeggiare. Quindi il fatto che Murakami ogni anno sia dato fra i favoriti gioca a suo sfavore. Personalmente penso lo meriterebbe. Si tratta di un grande scrittore che dà voce a una sensibilità che non conosce frontiere. Forse è un po’ pop per i gusti dell’Accademia, ma visto che quest’anno hanno premiato Bob Dylan, forse in futuro…
Come vede l’attuale scena letteraria giapponese?
G. A.: Premetto che in questi quattro anni ho potuto leggere meno del solito. Detto questo, mi sembra che sia molto vitale e che ci siano cose interessanti e scrittori che hanno molto da dire. Matayoshi Naoki ad esempio, un comico che l’anno scorso ha vinto il prestigioso Premio Akutagawa, ha un notevole talento di narratore. Poi ci sono Yoshida Shuichi, Kawakami Mieko, Furukawa Hideo. Sono tutti scrittori molto validi, anche se forse non ci sono figure di grande spicco come sono stati in passato i vari Kawabata e Tanizaki, o come lo sono adesso i due Murakami, Ryu e Haruki. Io intanto quando tornerò in Italia mi cimenterò per la prima volta con Mishima Yukio. È una cosa che mi incuriosisce e che farò molto volentieri.
Intervista realizzata da Jean Derome