All’estremo opposto abbiamo i creatori indipendenti di video-game la cui “legione straniera” sembra essere riuscita a prosperare in Giappone creando allo stesso tempo una forte comunità di creativi basata principalmente a Osaka e Kyoto. Il loro lavoro consiste sia nel realizzare giochi originali sia nel fare da tramite tra le aziende indie giapponesi e l’occidente, in qualità di organizzatori o di localizzatori. Nel loro caso la parola d’ordine è evitare come la peste le grandi compagnie di video giochi perchè la loro rigidità risulta troppo spesso in prodotti poco originali. Come ha scritto Dale Thomas (un veterano fra i programmatori stranieri in Giappone) su Quora Digest, “per uno straniero è molto frustrante quando si hanno delle idee nuove per creare giochi migliori, ma nessuno ti ascolta”.
L’industria dei manga sembra essere un altro bastione inespugnabile, anche se ogni tanto qualche artista straniero riesce a farsi pubblicare in Giappone. È il caso, ad esempio, di Åsa Ekström che nel 2011 si è trasferita a Tokyo dalla natia Svezia per studiare grafica e ha cominciato a mostrare le proprie strisce a fumetti (Nordic Girl Åsa discovers the Mysteries of Japan) sul suo blog fino a quando è stata scoperta dal gigante editoriale Kadokawa che ha pubblicato una sua raccolta di fumetti. Nel nostro special leggerete anche la storia a lieto fine della mangaka italiana Caterina Rocchi. Ma allora è proprio così difficile lavorare nell’industria otaku giapponese? Effettivamente sì. Ma non è neanche impossibile. L’importante è avere una grande passione, certe qualià e soprattutto non scoraggiarsi facilmente. Come dice Francesco Prandoni, il PR dello studio di animazione Production I.G (Ghost in the Shell, Patlabor the Movie, Jin-Roh: uomini e lupi), “in Italia avevo già lavorato nell’industria dell’animazione per dieci anni. Ho fatto un colloquio e mi hanno preso. In realtà io non sono assolutamente un’eccezione: da molti anni I.G assume impiegati stranieri. Attualmente nella nostra azienda ci sono cinesi, coreani, francesi e italiani anche se nessuno di noi lavora nel reparto animazione”. Non bisogna però dimenticare una cosa molto importante: la cultura giapponese sarà anche popolare all’estero ma ciò non vuol dire che i giapponesi sappiano parlare altre lingue. Come sottolinea Prandoni, “la maggior parte delle persone non si rende conto che saper parlare e scrivere in giapponese è una condizione sine qua non per lavorare con noi. Questa è l’unica lingua che usiamo nei nostri uffici”.
Jean derome
La terra santa degli otaku
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