In quel periodo gli studenti si erano già lanciati nel clima rivoluzionario, mettevano i caschetti e innescavano tafferugli con i poliziotti, e lo stesso Yomota Inuhiko si unì alla lotta, benché “Fosse complicato per me seguire la lotta perché vivevo ancora con mia madre che non era, come è comprensibile, particolarmente contenta di alcune mie scelte, come i capelli lunghi e certi occhiali da sole, che attribuiva ad influenze negative, pensando fossi diventato un delinquente. Dovevo quindi combattere su due fronti, e alla fine sono diventato membro del Zenkyoto, il Consiglio della lotta interfacoltà della mia scuola, un gruppo di opposizione alla guerra in Vietman che organizzava spesso cortei per protestare, lanciando pietre. Nel 1969 abbiamo organizzato l’occupazione della nostra scuola, ma non è riuscita, comunque la mia situazione era insostenibile e ho deciso di lasciare il liceo. Dopo aver letto Karl Marx, ero assolutamente convinto che essendo cresciuto in una famiglia borghese, dovevo raggiungere il proletariato, e così ho cominciato a lavorare in una fabbrica di dolci. Mi ricordo che guadagnavo 1000 yen per una giornata di lavoro di circa 8-10 ore. C’erano molti altri giovani della mia età che lavoravano lì, venivano soprattutto da famiglie povere, avevano lasciato la loro provincia per cercare lavoro a Tokyo. Cercavo di integrarmi, ma dopo un po’ ho capito che esisteva uno scarto enorme tra di noi, non solo temevo di non poter sopravvivere con un salario così misero, ma era ormai evidente per me che appartenevamo a mondi troppo diversi. Durante la pausa, ad esempio, io leggevo un libro, mentre loro preferivano parlare di donne e soldi. Questa presa di coscienza mi ha spinto a mettere in discussione il mio sogno di raggiungere la classe operaia: ho compreso quanto fosse irrealistico. Intanto la mia famiglia, fortunatamente, aveva chiesto alla scuola di riprendermi, e così fu”.
Nel 1972, Yomota Inuhiko entrò all’Università, già disilluso dalla politica, in particolare a causa delle faziosità che impregnavano il movimento studentesco. “In ogni campus c’era una zona letteralmente controllata da Kakumaru-ha, un’altra da Kyosando (lega comunista) e una terza dalla lega della gioventù democratica, la Minsei Domei”, ricorda Yomota.“Se eravate Nonpori, letteralmente non politici, cioè neutri, allora potevate circolare liberamente per il campus e andare ovunque, se invece appartenevate ad una certa fazione, allora non potevate, e nemmeno avreste osato, andare nelle zone controllate dal nemico. Per quello che mi riguardava, ero completamente immerso nell’universo del cinema e non mi occupavo più molto di queste faccende politiche, ma al contempo non potevo ignorarle: fui molto colpito quando due miei compagni furono uccisi”.
Benché il cinema fosse per lui la principale motivazione per recarsi a Shinjuku, il quartiere aveva anche molto altro da offrire “purtroppo io ero uno studente squattrinato, il meglio che potevo permettermi era un caffè in uno dei numerosi jazz bar del quartiere, come il Pit Inn. Vi ho passato ore intere ad ascoltare dei giovani musicisti all’epoca sconosciuti”. Abe Kaoru era uno di questi. Allora ventenne, autodidatta, aveva lasciato la scuola nel 1967 per dedicarsi alla musica. “Un giorno è uscito, ha suonato qualche nota, prima di mormorare agli spettatori della sala: oggi è un brutto giorno. È andato via poi, aveva qualche problema mentale, era evidente questo…”.
Yomota Inuhiko si è anche dedicato al teatro, ma senza grande successo. “Per due volte sono stato scartato all’audizione per unirmi alla troupe di Terayama Shuji che stava lavorando all’adattamento giapponese della commedia musicale americana Hair. Quando sono arrivato lì mi sono ritrovato circondato da circa trecento hippy! Non pensavo ci fossero così tanti capelloni in Giappone! ».
La commedia originale faceva riferimento anche alle questioni razziali e alle proteste contro la guerra in Vietnam, mentre nella versione riadattata da Terayama Shuji si raccontava di un giapponese che sogna di diventare un bianco americano fino al giorno in cui non riceve la sua cartolina di chiamata alla leva e a quel punto non sa più che fare. “Terayama ha sostituito i personaggi afro-americani con degli Zainichi (residenti coreani permanenti in Giappone), i quali sono tradizionalmente discriminati da noi; la sua intenzione era toccare tutti i tabù della società giapponese, ma la compagnia Shochiku, che era a capo dello spettacolo, bloccò le repliche e cacciò Terayama. Alla fine sono tornati al copione americano orginale, ma lo spettacolo era snaturato, un’occasione persa!.”
Il 1968 è stato anche l’anno per il Giappone dell’apertura alle idee culturali e politiche che venivano dall’Europa. “Le opere di Walter Benjamin sono state tradotte per la prima volta e hanno avuto un forte impatto sulla filosofia giapponese”, ricorda il professore Yomota. “Ma ancor di più le opere di Sartre, la cui visita nel ’66 può essere paragonata come impatto a quella di Chaplin nel 1932. Un altro evento importante quello stesso anno è stata la proiezione del film di Godarde La Cinese, all’Art Theater Shinjuku Bunka. Questo film ha avuto un impatto enorme su di me. Il Giappone credo sia stato il solo Paese, Francia esclusa, in cui i film di Godard del periodo del gruppo Dziga Vertov sono stati diffusi. Il sottotitolaggio era allora impossibile, per cui i film erano doppiati da attori che facevano parte dell’entourage di Oshima Nagisa”.