La birra resta popoare con il 40% di quota sul mercato degli alcolici, ma l’attuale situazione economica ha la sua incidenza.
Giappone e birra: un binomio fortunato. In termini assoluti, il Paese è il settimo più grande consumatore al mondo di questa bevanda, nonostante la taglia ridotta del suo territorio. In termini di consumazione per abitante, si situa invece al 50esimo posto, con 40,1 litri annui a persona.
Il mercato è dominato da quattro grandi imprese (Asahi, Kirin, Sapporo e Suntory) che nel 2018 rappresentavano da sole più del 94% del mercato locale. Asahi Beer è in testa con una percentuale del 37,6%, seguita da Kirin (30,3%), Sapporo (15,3%) e Suntory (10,2%). Una quinta società, Orion, basata a Okinawa, detiene lo 0,8%. I prodotti di questi marchi (in particolare le quattro società più grandi) si trovano in tutti i supermercati, i negozi di alimentari e i bar del Paese.
Il mercato giapponese della birra è diviso in tre categorie, in virtù della legge che regola la tassa sugli alcolici: la birra, l’happôshu e i “nuovi generi”, o “terza birra” (Shin janru o daisan no bîru). Per capire il funzionamento e l’impatto del sistema di classificazione sulle scelte dei consumatori, è importante conoscere le differenze fra queste tre categorie.
Le bevande al malto simili alla birra sono divise in quattro categorie in funzione del tenore di malto: 67% o più, da 50% a 67%, da 25% a 50% e meno di 25%. Fino al 2016, una bevanda a base di malto era classificata come birra se la percentuale di estratto di malto superava il 67% degli ingredienti portati a fermentazione.
Oggi, il limite è stato abbassato al 50%: questo significa che il regolamento giapponese vieta ormai l’impiego del termine “birra” per descrivere le bevande aventi meno del 50% di malto (ciò autorizza però fino al 50% di ingredienti aggiuntivi, come il riso, il mais, il sorgo, la patata, l’amido e lo zucchero). Un’altra innovazione recente nella normativa è legata all’autorizzazione di utilizzare una più grande varietà di ingredienti, in particolare la frutta, le spezie, le erbe, certe verdure, il miso, il té e il caffè, oltre a ingredienti ancora più “esotici “ come le ostriche, il varech, le alghe e il pesce essiccato.
Tradizionalmente, la tassa sugli alcolici in Giappone ha avuto un ruolo più importante rispetto agli altri Paesi consumatori di birra: 77 yen (0,64€) su una lattina di 350 ml contro l’equivalente di 46 yen (0,38€) nel Regno Unito, 16 yen (0,13€) in Francia, nove negli Stati Uniti e quattro in Germania.
La tassa elevata sull’alcol, combinata alla recessione dei primi anni Novanta, ha contribuito alla contrazione crescente del mercato della birra, facendo così passare la consumazione totale da 70 milioni di ettolitri nel 1994 a 51 milioni nel 2017.
L’improvvisa perdita di interesse dei consumatori nei confronti della birra, particolarmente forte tra il 1998 e il 2003, è stata anche la conseguenza della comparsa sul mercato, nel 1994, di una nuova bevanda alcolica, l’happôshu. Con un tenore più debole in malto, è stata posta in uno scaglione di imposizione fiscale inferiore, diventando così immediatamente popolare presso i consumatori a corto di mezzi. Quando il governo ha aumentato la tassa sull’happôshu contenente da 50% a 67% di malto, i fabbricanti hanno reagito abbassando ulteriormente la dose di malto nei loro prodotti. Oggi, la maggior parte di queste bevande ne contiene meno del 25%, collocandole così nella categoria di birre a debole tenore di malto, le meno tassate.
L’economia giapponese ha ripreso un po’ di vitalità nel corso di questi ultimi anni. Questo ha innescato una crescita del mercato globale delle bevande. Tuttavia, il mercato della birra ha continuato a decrescere, in ragione della demografia in calo e dei cambiamenti delle abitudini dei consumatori.
In particolare i più giovani bevono meno birra rispetto alle generazioni precedenti. Dal 2004, persino l’happôshu soffre della concorrenza di un nuovo tipo di bevanda, chiamata “nuovo genere”: una bevanda aromatizzata alla birra che contiene delle alternative al malto (ad esempio la soia), oppure un mix di happôshu e di un altro tipo di alcol. Se si paragonano le lattine da 350 ml, la tassa sui marchi “nuovo genere” si limita a 8 yen (0,23€), mentre anche l’ happôshu meno caro è tassato fino a 47 yen.
Di conseguenza, la consumazione di birre “nuovo genere” nel 2017 si è rivelata quasi tre volte superiore a quella dell’happôshu.
L’innalzamento della tassa sul consumo nel 2019 ha avuto un impatto negativo sulle abitudini dei giapponesi, ormai più attenti a selezionare prodotti di qualità a basso prezzo. I grandi produttori hanno dovuto esercitare una notevole pressione per rilanciare la loro produzione in difficoltà, visto che a partire dall’ottobre 2020, il governo ha corretto il sistema di tassazione sull’alcol. Nel corso dei prossimi sei anni, la tassa sulla birra tradizionale si abbasserà mentre quella sul “nuovo genere” e sull’ happôshu meno costoso sarà alzata fino al 2026, data in cui le tre categorie saranno sottomesse alla stessa tassa di 54,25 yen (0,45€).
Mentre il mercato della birra tradizionale ha attraversato dei momenti difficili, le birre artigianali prodotte localmente diventano progressivamente sempre più popolari. Con circa l’1% della quota di mercato, la loro importanza rimane ancora relativa, ma il futuro sembra promettente. Nell’insieme, malgrado il fatto che se ne consumi di meno, la birra (compresi l’happôshu e i “nuovi generi”) conserva una quota di mercato pari al 40%, rimanendo quindi la bevanda alcolica più popolare in Giappone.
Gianni Simone