Tokyo significa Shibuya, Harajuku o ancora Shinjuku. Ma non bisogna dimenticare questa manciata di isolette a 1000 km di distanza dalla città.
Sul ponte dell’Ogasawara Maru, i passeggeri scattano le foto dei primi scorci dell’arcipelago di Ogasawara. Avvolte nella nebbia e coperte di densa vegetazione, le isole offrono l’immagine subtropicale di un Giappone distante anni luce dai kimono e dai giardini zen. Distante più di mille chilometri da Tokyo, questo arcipelago di una trentina d’isole perse nel Pacifico fu nel passato un territorio vergine percorso soltanto dai balenieri in rotta qui dalla Nuova Inghilterra. Uno di questi, Nathaniel Savory, decise di creare una colonia nel 1830. Nel 1880, quelle che ancora venivano chiamate le “isole Bonin” (“isole abitate da nessuno”) integrarono la prefettura di Tokyo e mutarono nome in Ogasawara. I primi abitanti dell’arcipelago si mescolarono ai pescatori e agli agricoltori giapponesi. Ai giorni nostri, Ogasawara rimane ancora, per la maggior parte della popolazione nipponica, un angolo di mondo estremo, inaccessibile e misterioso.
La traversata dura 25 ore dalla capitale. Il tempo impiegato per il tragitto non è cambiato da 35 anni a questa parte, da quando l’Ogasawara Maru opera il collegamento con l’arcipelago. Immensa, l’imbarcazione propone sei classi di cabine, fra le quali la più economica, uno spazio occupato soltanto da un tatami in fondo alla stiva, è anche la più sconsigliata agli stomaci fragili. Malgrado la sua stazza, infatti, la nave dondola avanti e indietro, impedendo qualsiasi movimento. Solo gli isolani, testimoni di condizioni ben peggiori in altre traversate, continuano serenamente a sorseggiare il loro shochu, alcol di patate dolci.
“Non è la stagione dei tifoni, ma il mare è capriccioso. Speriamo di non entrare in collisione con una balena sulla rotta”, commenta, dalla sua cabina, il capitano Takahashi. Un secolo e mezzo fa, gli uomini affrontavano questo tratto di oceano a bordo di canoe, per arpionare i cetacei ottenere così il combustibile che all’epoca valeva oro: l’olio di balena, utilizzato per le lanterne.
Finalmente appare il porto di Chichijima, in una splendida baia dalle acque turchesi. Centinaia di mani si agitano verso di noi. L’arrivo, una volta a settimana, dell’Ogasawara Maru è un autentico avvenimento per Chichijima e Hahajima, le due sole isole abitate dell’arcipelago. Se si esclude qualche prodotto coltivato per i turisti, Ogasawara dipende interamente da Tokyo per l’alimentazione. “Sono tornato dagli Stati Uniti quindici anni fa per gestire il supermercato. È una grossa responsabilità, bisogna congelare tutto: nell’eventualità che un tifone si abbatta sull’isola, siamo tagliati fuori dal mondo”, racconta Rocky Savory nel suo inglese impeccabile. L’uomo dirige la B.I.T.C. (Bonin Islands Trading Company), nata sessant’anni fa. Pro-pro-pronipote di Nathaniel Savory, Rocky è nato nel 1960. Di sua madre ha ereditato gli occhi a mandorla, ma il fisico imponente rivela le origini americane.
“Qui ci chiamano gli Obeikei (di origine occidentale). Nelle nostre vene scorre sangue hawaiano, polinesiano, africano. Ma ci sentiamo prima di tutto nativi di Ogasawara”, precisa. I discendenti degli autoctoni, circa 200 individui su una popolazione di 2000 abitanti, coabitano in armonia con la popolazione giapponese.
Lungo l’arteria principale che contorna il porto di Chichijima, le insegne bilingue ricordano fieramente il passato internazionale dell’isola, un vantaggio sicuro per lo sviluppo del turismo.