Ogasawara, l’arcipelago del tesoro

John Washington è uno degli Obeikei che vivono a Ogasawara. / Stefano De Luigi per Zoom Giappone

Classificata nella lista del Patrimonio mondiale Unesco dal 2011, Ogasawara trabocca di specie endemiche, fra cui diverse minacciate d’estinzione, e attira i turisti appassionati di flora e fauna. “Abbiamo un pipistrello dalla pelliccia rossa che chiamiamo “volpe volante”, può misurare fino a 1,50 metri!”, esclama la guida, originaria della lontana prefettura di Ehime, sull’isola di Shikoku.
Ci muoviamo nella giungla, fra grovigli di radici e grotte misteriose. Ogasawara nasconde numerose vestigia storiche. In mezzo agli alberi taco a forma di polipo e a ficus “strangolatori”, si trovano alcune rovine della Seconda Guerra Mondiale: camion, bunker e stoviglie, silenziosi testimoni della vita dei soldati. A 300 metri di altitudine la scogliera di Heart Rock, a forma di cuore, è unica nel suo genere. Offre al visitatore una vista incomparabile sull’oceano, che appare come una striscia di cobalto orlata di verde. Al largo, il soffio di una balena si rivela come una fontana candida. Una volta cacciate e oggi protette, le balene offrono all’isola un importante flusso turistico e conseguenti incassi. “Grazie all’accesso difficile, non vi è tuttavia turismo di massa, e l’ecosistema è preservato”, assicura Shibuya Masaaki, vicepresidente dell’associazione turistica del villaggio di Ogasawara. Nessun aeroporto è previsto per l’arcipelago. “Sono le condizioni poste dall’Unesco per mantenerci nella lista del Patrimonio mondiale”, spiega. Lontani dai macro-complessi turistici, gli alberghi e i piccoli hotel famigliari offrono charme e confort per rilassarsi dopo una giornata tra giungla e oceano.
George Minami Gilley ammira l’orizzonte. Discendente del celebre capitano baleniere William Gilley, uno dei primi coloni a popolare l’isola, George ha ripreso il lavoro dell’antenato ma in maniera più pacifica. A bordo del suo peschereccio, colui che oggi viene soprannominato “Little George” scruta i flutti per individuare il getto inconfondibile che segnala la presenza delle megattere. “Ne vedremo se avete fortuna!”, spiega placidamente. Vicino alla spiaggia di Sakaiura, l’imbarcazione si ferma per lasciarci visitare il relitto di un cargo giapponese, l’Hinko Maru, colpito durante la guerra del Pacifico, nel 1944. Da quando giace nelle acque cristalline a qualche metro dalla spiaggia dell’isola di Chichijima, il relitto è diventato il rifugio per migliaia di pesci variopinti e squali. “Si tratta di squali inoffensivi, non vi preoccupate!”, assicura George che ci spinge verso il largo. In questo mattino primaverile, la bruma ricopre ancora gli isolotti rocciosi offrendo un’atmosfera incantata, mentre dai flutti fanno capolino pesci volanti e delfini, indifferenti all’imbarcazione. “Se mettiamo capo a sud per 240 chilometri, si arriva a Iwojima. Ma nessuno ha diritto di sbarcare sull’isola, a parte le forze di autodifesa giapponesi”, racconta. Cappellino americano calato sulla fronte e capelli scoloriti dal sole, Little George porta una tee-shirt sulla quale sono raffigurati i soldati americani intenti a issare la bandiera USA su Iwojima, l’isola più celebre della guerra del Pacifico, dove morirono 20.000 combattenti giapponesi. Le balene sono assenti, ma navighiamo su fondi marini trasparenti, popolati da migliaia di pesci tropicali. Si alza la nebbia. Facciamo uno stop a Minamijima, un’isola deserta con una spiaggia che regala paesaggi di quarzo e rocce straordinarie. Finalmente, dopo più di quattro ore, la nostra pazienza è ricompensata. Scorgiamo le prime balene: una famiglia con due maschi, una femmina e un piccolo. Li seguiamo per un bel po’ di tempo, osservando i loro corpi enormi, pieni di grazia e quasi irreali, elevarsi in salti arditi e poi scomparire nuovamente nel mare.

In certi momenti, la nebbia invade il paesaggio e conferisce un’atmosfera inquietante. / Stefano De Luigi per Zoom Giappone

L’indomani partiamo per l’isola di Hahajima, 50 km a sud di Chichijima. Popolata da 450 abitanti, offre gli stessi paesaggi dell’isola principale ma è ancora più selvaggia. È qui che arrivarono i primi coloni giapponesi all’inizio del XIX secolo per lanciarsi nella coltura della canna da zucchero.
Komatsu Hiroko, discendente di questi coloni, è nata nel ’44 e ha vissuto in esilio sull’isola di Honshu coi suoi genitori. “Sono stati cacciati da Hahajima a causa della guerra e sono potuti ritornare soltanto nel 1968. Questo perché quando l’isola, nel ’45, è passata sotto controllo americano, nessun giapponese fu autorizzato a ritornarvi”, confida la donna, mentre raccoglie alcune primizie nel suo frutteto.
Fujitani Akinori fa invece parte dei nuovi abitanti dell’isola. Ha lasciato la sua prefettura natale, Aichi, a ovest di Tokyo, vent’anni fa. Pelle scura e mani robuste, questo agricoltore ha ereditato un campo con una vista superba sull’oceano. “Sento persino il soffio delle balene!”, esclama. Un solo inconveniente: due cannoni, retaggio della guerra, sono piantati nel bel mezzo del suo campo di margherite. “I miei amici vengono a scattare foto, ma avere queste rovine belliche sulla mia proprietà, mi perturba!”, dice, ridendo sottovoce. Con l’aiuto della moglie, coltiva succulenti frutti della passione e i famosi pomodori-ciliegia di Hahajima, prelibatezza per i turisti.
A qualche minuto di distanza dal porto, si può visitare la distilleria di rhum di Hahajima, che produce circa 4000 bottiglie l’anno. Oggi il “Bonin rhum” che faceva la gioia di pirati e marinai nel passato, ha qualche difficoltà a fare concorrenza allo shochu, l’alcol di patata dolce o grano, adorato dai giapponesi. Il rhum continua tuttavia a far parte della storia di Ogasawara. “Assaggiate questo rhum, ha 25 anni!”, esclama il Sig. Orita. Profumi intensi invadono l’aria del crepuscolo. Sotto il ficus strangolatore che si erge davanti al porto, gli isolani si riuniscono dopo il lavoro: pescatori, agricoltori o funzionari come Kadowaki Osamu, che lavora presso la cooperativa agricola di Hahajima. Quest’uomo, originario di Tokyo, un giorno ne ha avuto abbastanza di fare il pendolare e delle sue tre ore di treno giornaliere e ha dato le dimissioni, per trasferirsi sull’isola. “Qui, la convivialità e la qualità di vita valgono più di tutto il confort del mondo”, assicura, con un gran sorriso.