DESTINO : Un italiano sulla via dello Zen

Alberto Daijo Pitozzi medita sulle scelte che l’hanno condotto alla vita monastica in Giappone.

Soji-ji Buddhist Zen Temple
Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone

Il distretto di Tsurumi, incastrato nell’angolo nord-orientale di Yokohama, non è esattamente una bella zona. Distrutto più volte dai terremoti e dai raid aerei americani, è diventato dopo la guerra il maggiore centro industriale della metropoli giapponese. Ma se ci si allontana di circa mezzo chilometro dalla stazione omonima si scopre uno stupendo esempio di architettura buddhista che è allo stesso tempo uno dei maggiori centri religiosi del Giappone. Sojiji è uno dei due templi principali della scuola buddhista Zen Soto. All’interno del suo vasto complesso (un quadrilatero irregolare di 3,3 chilometri quadrati) sorgono sette edifici secondo la tradizionale struttura shichido garan.
In origine Sojiji era stato costruito nella prefettura di Ishikawa, sulla costa occidentale del Giappone. Alla fine dell’800 un incendio lo distrusse quasi completamente e l’abate dell’epoca colse l’occasione per trasferire il tempio a Yokohama e diffondere l’insegnamento della scuola Zen Soto. Oggi è la principale scuola buddhista in Giappone con ben 17.000 templi diffusi in tutto il paese.
Chiunque ha libero accesso al tempio e infatti molti vengono qui per godersi la quiete e la serenità del posto. È in questa singolare oasi di pace che incontro Alberto Pitozzi, un bresciano che un anno fa è diventato monaco buddhista. Alberto – che è stato ribattezzato Daijo – mi racconta la sua vita mentre mi guida attraverso il corridoio lungo 164 metri che collega gli edifici del Sojiji. Ogni tanto interrompe la nostra conversazione per salutare altri monaci che vengono dalla direzione opposta.
«Ho lasciato Brescia per Milano dove mi sono iscritto al Politecnico per studiare design industriale. Ho incontrato però subito una persona che mi ha aperto le porte dell’attività teatrale, che era poi quello che volevo fare veramente. Così dopo soli sei mesi ho lasciato l’università. Dopo quattro anni ho conosciuto il grande mimo francese Marcel Marceau quando ha ricevuto a Mantova l’Arlecchino d’Oro. Quella è stata una grande rivelazione tant’è vero che un mese dopo sono partito per Parigi dove mi sono diplomato alla scuola di Marceau e per i successivi dieci anni ho vissuto lì facendo spettacoli».

Mi pare che la tua vita sia stata plasmata e influenzata da tutta una serie di incontri.
Alberto Pitozzi: È vero, è stata una successione di avvenimenti che improvvisamente hanno cambiato la mia vita. Solo dopo mi sono accorto che questa cosa è molto vicina al concetto buddhista di goen: nel corso della tua vita ci sono dei momenti chiave e sta a te innanzitutto riconoscerli e poi decidere se questi momenti devono essere un’occasione di cambiamento oppure no. Ognuno di questi segni mi ha gradualmente indicato una strada, che era quella di diventare monaco e che, come ho capito alla fine, era la risposta alla domanda che mi ero fatto tutta la vita, cioè perché sono venuto al mondo. Tutte le mie esperienze passate (il teatro, la fotografia, ecc.) sono state modi diversi per rispondere a quella domanda, e ogni volta mi sono accorto che erano risposte insufficienti.

In Italia ti eri già avvicinato al buddhismo?
A. P.: Sì, avevo già fatto zazen (meditazione in posizione seduta) ma non in maniera sistematica. La prima volta addirittura a 16 anni (non mi ricordo nemmeno come ho saputo di questa cosa). Comunque secondo la leggenda (ride), dato che a scuola non andavo molto bene, la mattina mi sedevo sul letto a meditare sperando di potenziare la mia forza di concentrazione. Si può dire che c’è stata una sorta di attrazione inconsapevole. Dopo di che, anche negli anni successivi mi si è presentata più volte l’opportunità di “sedermi”.
Procedendo lungo il corridoio, arriviamo alla Sodo (Sala di meditazione). È qui che tutti fanno zazen, consumano i pasti e dormono. La cosa che si nota immediatamente è il freddo intenso. Le sottili pareti in legno che separano l’interno dall’esterno è come se non esistessero e, come spiega Daijo, il calore umano è l’unica forma di riscaldamento. «In estate», aggiunge Alberto, «in compenso si muore dal caldo». Solo allora noto che la mia guida cammina in un paio di pantofole ma è senza calze. «La nostra vita è a piedi nudi, in qualsiasi condizione climatica. Come dicono i Giapponesi, shikata ga nai (pazienza, non c’è niente da fare). I piedi fanno male, anche adesso sono mezzi congelati (ride), ma a un certo punto ti ci abitui».
Come spiega Daijo, «nella scuola Soto Zen il satori (illuminazione) non è un obiettivo e non c’è una pratica progressiva. Sedere in zazen per fare meditazione è già la realizzazione del satori. Non c’è niente da cercare perché in quella posizione c’è già tutto ciò di cui abbiamo bisogno; è un modo per liberarci progressivamente di tutti i filtri (l’ego, la cultura, le passioni, ecc.) che ci impediscono di vedere la realtà per quella che è. Non c’è niente di magico o di nascosto. È tutto già di fronte a noi. Sta solo a noi aprire gli occhi e vedere».

Cosa si prova all’inizio a fare zazen?
A. P.: All’inizio è un inferno perchè ti ritrovi seduto faccia al muro per 40-45 minuti e senti dolori dappertutto – le gambe, la schiena, le spalle. Cominci a maledire tutti quelli che ti stanno attorno e a chiederti perché lo stai facendo. Ma nessuno si muove e quindi anche tu cerchi orgogliosamente di resistere. Ci sono volte in cui l’unica cosa che ti sta davanti è il dolore. Poi però pian piano impari a lasciarti andare, fisicamente e spiritualmente. Un importante insegnamento che ho ricevuto è che devi aprire le mani, sia letteralmente che metaforicamente. Devi cioè essere sempre pronto a ricevere e accettare tutto quello che ti viene dato, per poi magari ripassarlo a tua volta. Questa apertura totale, questo “lasciarsi fare”, è la cosa più difficile da accettare.
La nostra passeggiata ci porta all’edificio più vecchio del tempio, chiamato Hokodo (Sala delle luci splendenti). Gli edifici del Sojiji sono stati ricostruiti ex-novo nel 1911 (quando il tempio è stato trasferito a Yokohama) ma l’Hokodo è stato trasportato pezzo per pezzo dalla sua sede originale e rimontato qui. È in questa sala che Daijo lavora attualmente, seguendo un sistema secondo cui le mansioni vengono redistribuite ogni tre mesi. L’Hokodo è usato prevalentemente per le cerimonie commemorative e infatti la parete di fondo è piena di tavolette funebri di persone che hanno fatto una donazione al tempio. «Arriviamo a fare anche 12 cerimonie al giorno, sei al mattino e sei al pomeriggio», puntualizza Daijo.

Il buddhismo come è entrato a far parte della tua vita?
A. P.: Il primo incontro è avvenuto a 6-7 anni. Ero nel laboratorio di mio padre, nel tardo pomeriggio, e un Hare Krishna è entrato, tutto vestito di arancione, e mi ha dato una copia del Bhagavadgītā, il loro testo sacro. Io non avevo mai visto una persona simile e sono rimasto molto colpito ma la cosa è finita li. Ho cercato di leggere il libro ma naturalmente non ci ho capito niente.
Saltando invece al passato recente, la pratica quotidiana l’ho iniziata nel 2014 in Italia, al Fudenji che è un tempio vicino a Parma, a Salsomaggiore. Sono stato lì 11 mesi praticando come laico perché non ero ancora stato ordinato monaco. Ci sono alcune diversità con il Sojiji perché ogni tempio è leggermente diverso dagli altri. Lo Zen non è una scatola chiusa. Al contrario è come il vento: si muove e si adatta a ogni circostanza. Ci sono naturalmente delle regole comuni ma i dettagli vengono plasmati dalla pratica quotidiana – cioè dalla vita stessa.

Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone
Per il monaco Alberto Daijo Pitozzi e i suoi confratelli, la giornata è ritmata da diversi momenti dedicati alla preghiera. Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone

La tua prima esperienza giapponese però risale a diversi anni prima, vero?
A. P.: Sì, in Francia avevo sposato una Giapponese e nel 2002 siamo andati a vivere nell’isola di Sado, al largo della costa occidentale del Giappone, con lo scopo di entrare a far parte di Kodo, il famoso gruppo di percussioni giapponesi. Sado è una località in cui senti fortemente la presenza della natura. È un ambiente sotto certi aspetti estremo che ti mette alla prova. Le mie vicissitudini personali unite all’ambiente in cui mi trovavo mi hanno portato sull’orlo del suicidio e alla separazione da mia moglie. Era come se il dolore che provavo mi portasse verso l’autodistruzione. Anche in questo caso è stata la mia frequentazione dei templi buddhisti che mi ha fatto capire l’errore che stavo facendo. E allo stesso tempo mi ha offerto la soluzione: fare il monaco come modo per vivere non per me stesso ma per rivelare il pensiero del Buddha e trasmettere la mia esperienza a chi ne ha bisogno. Studiare la Via del Buddha significa studiare se stessi. E a sua volta studiare se stessi significa dimenticare se stessi.
Il tratto sotterraneo del corridoio ci porta al Butsuden che è il cuore del tempio poiché ospita il Buddha. È un posto molto bello e suggestivo. Tuttavia i visitatori non sono ammessi e anche i monaci (eccetto coloro che a turno vanno a fare le pulizie) possono entrarci solo in occasione di particolari cerimonie. Si dice che lo stile architettonico sia ispirato al tempio cinese in cui Dogen Zenji (il primo grande maestro Zen) ha incontrato il suo maestro e dove ha raggiunto l’illuminazione. È stato lì che ha trovato il vero buddhismo che poi ha deciso di diffondere in Giappone.
La tappa successiva è la Daisodo (Grande sala dei fondatori), un’architettura mista in legno e cemento costruita nel 1966. Alta 36 metri e con un pavimento di 1000 tatami, il maestoso edificio è probabilmente una delle sale da cerimonia più grandi del Giappone.
Siamo arrivati quasi alla fine del nostro giro e la storia di Daijo ci porta ai nostri giorni. «Nel novembre del 2014 sono tornato in Giappone dopo avere ultimato l’esperienza di Parma e sono andato a porgere i miei rispetti ad un tempio Zen da cui parte un sentiero storicamente famoso perché Gasan, abate di Sojiji nel Quattordicesimo secolo, lo percorreva quotidianamente. Sono arrivato a Yokoji e lì ho incontrato l’abate del tempio. In quel momento ero completamente libero, non avevo nessun legame, e parlando con lui gli ho chiesto di diventare mio maestro. Lui all’inizio ha avuto qualche dubbio ma alla fine l’ho convinto. Così mi sono fermato lì e il 3 febbraio dell’anno scorso mi ha ordinato monaco».

I tuoi genitori come hanno preso questa cosa?
A. P.: All’inizio ovviamente erano molto stupiti e soprattutto preoccupati perché avevano davanti l’immagine della clausura. Per loro io andavo a rinchiudermi in un monastero, ciò che gli sembrava incomprensibile, soprattutto conoscendo la mia precedente vita da nomade. Invece per me è tutto l’opposto: è una liberazione dalle costrizioni che impone la società. Io non potevo più accettarle e me ne sono tirato fuori. È stato anche il bisogno di rinascere a una vita più semplice e per me più autentica. E infatti la cerimonia di ordinazione del monaco è quasi un funerale, perché equivale a lasciarti dietro la tua vita precedente prima di rinascere con un nuovo nome.

Quando sei stato ordinato monaco vivevi nella prefettura di Ishikawa ma adesso ti trovi qui per un periodo di studi e di formazione. Come è stata finora la tua vita al Sojiji?
A. P.: Dopo la mia entrata formale sono stato una settimana a imparare le formalità del posto (ad es. come mangiare, come rispondere, ecc.). I successivi tre mesi sono stati i più duri perché sono dovuto entrare nei ritmi di vita del tempio. Non avevo soldi perché avevo dovuto consegnare il mio portafoglio; non potevo comunicare con l’esterno perché non avevo il telefono; potevo mangiare solo quello che offriva la cucina del tempio (all’inizio ho perso dieci chili); e poi lavori in continuazione. Per noi dedicarci alla pulizia equivale a purificare il cuore dall’egoismo. Prendi ad esempio il corridoio che abbiamo percorso. È lungo 750 metri e dobbiamo pulirlo a lucido due volte al giorno. È proprio in questi primi tre mesi di formazione che capisci quanto tutti noi siamo dipendenti l’uno dall’altro perché arrivi ad un punto in cui la tua sola forza e determinazione non bastano più. È quando hai raggiunto i tuoi limiti che inizia la pratica vera e propria. Non solo questo: fra le altre cose noi siamo una specie di consiglieri spirituali per le persone con dei problemi. Quindi dobbiamo essere in grado di ricevere il peso degli altri. Come possiamo ricevere le sofferenze altrui se prima non le sperimentiamo di persona? È anche per questo che la nostra pratica a volte è così dura.
All’inizio Daijo doveva rimanere al Sojiji fino alla fine di gennaio. Tuttavia l’amministratore del tempio ha chiesto al suo maestro di lasciarlo qui per un altro anno. «La cosa mi ha fatto molto piacere perché vuol dire che sono soddisfatti di me, anche se vivere qui è molto più impegnativo che a Ishikawa, soprattutto dal punto di vista fisico. In fin dei conti qui l’età media dei monaci in formazione è di 22 anni mentre io ne ho 42. Probabilmente verso la fine della mia permanenza entrerò nel dipartimento più duro – quello che si occupa della Grande sala delle cerimonie – perché ci si alza ogni giorno alle 2:30 e non si va a letto fino alle 23:00 o mezzanotte. In più, durante le cerimonie bisogna portare i libri dei Sutra. Ogni pacchetto di libri pesa dieci chili e i monaci adibiti a quel compito ne portano tre, a volte anche quattro».

Uno dei tre principi fondamentali dello Zen Soto è la “non azione”. Tuttavia mi sembra che la vostra vita quotidiana sia una lunga serie di attività e cerimonie. Hai mai del tempo libero o uno spazio solo per te stesso oppure il concetto stesso di tempo libero non fa parte della vita di un monaco Zen?
A. P.: Ti potrei rispondere dicendo che io sono libero per 24 ore al giorno; libero di fare quello che mi chiedono di fare. Nella pratica Zen non distinguiamo fra lavoro e non lavoro perché in realtà il nostro non è un lavoro genericamente inteso. È la nostra vita, e tu non puoi riposarti dalla vita. Nel momento in cui lo fai, muori.

Intervista di Jean Derome

Informazioni pratiche
Sojiji offre tour guidati e sessioni di meditazione Zen in inglese, oltre a Shakyo (riproduzione a mano dei Sutra) e altri eventi.
Per informazioni : 0081-45-581-6086
http://sojiji.jp/zenen/sanpai/zazen-english.html

 

realtà il nostro non è un lavoro genericamente Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone