Uno sguardo eloquente sulla storia e sulla cultura giapponesi attraverso la cucina nel paese del Sol Levante.
Il mio primo incontro con la cucina giapponese risale al 1984, quando per la prima volta andai a Parigi. I miei amici ed io avevamo voglia di fare follie e per una banda di adolescenti cresciuti nella provincia italiana il sushi era il massimo dell’esotismo culinario. Quando ce lo portarono su un vassoio di legno notammo una specie di maionese verde che, concludemmo, andava sicuramente spalmata sul pesce crudo. Il primo boccone fu un’esperienza indimenticable: cominciai a lacrimare e a tossire mentre il naso sembrava sul punto di esplodere. Solo più tardi scoprii che quella maionese verde era wasabi, una pasta molto piccante che viene fatta con il ravanello giapponese – anche se nel mio caso a causare le fitte al naso era stato probabilmente del comune rafano colorato che viene spesso usato come sostituto, visto che il wasabi autentico è molto caro.
Se trent’anni fa per molti occidentali la cucina del Sol Levante era ancora avvolta nel mistero, oggi ci sono più di 50.000 ristoranti giapponesi nel mondo e mangiare pesce crudo, tempura o soba non è più visto come un viaggio ai confini dell’universo culinario. Il riconoscimento definitivo è arrivato nel 2014 quando il Washoku (la cultura della dieta tradizionale del Giappone) è stato riconosciuto dall’Unesco come patrimonio culturale immateriale dell’umanità.
Tutto bene, quindi? Sembrerebbe di sì, se non fosse che molti cuochi e ristoratori giapponesi continuano a preoccuparsi che il resto del mondo venga in contatto col vero Washoku. A Tokyo e Osaka gli chef locali saranno anche liberi di creare fantasiose versioni della cucina straniera (avete mai provato gli spaghetti con uova di merluzzo e alghe o la pizza al pollo in agrodolce e salsa tartara?) ma basta sussurrare le magiche parole “California roll” (o altre variazioni atipiche di sushi) nell’orecchio di un Giapponese per fargli venire le convulsioni.
Murata Yoshihiro è uno di questi puristi che nel 2004 ha fondato un’organizzazione non-profit, l’Accademia della Cucina Giapponese (JCA), allo scopo di sviluppare e divulgare l’autentico Washoku sia fra i cuochi che fra i gourmet stranieri. Questo libro, fra l’altro, è solo il primo passo dell’ambizioso progetto della JCA. Altri volumi sono in preparazione ma per il momento questa Introduzione è un’ottima occasione per familiarizzare con il mondo della cucina giapponese. L’opera va ben al di là delle semplici nozioni di cucina e fornisce informazioni su natura, clima, storia e cultura del Paese, spiegando poi le tecniche di base per la sua preparazione. Quindi non si tratta tanto di un comune manuale di cucina (anche se alla fine del libro trovate 27 pagine di ricette) quanto di un approccio totale al tema gastronomico, con spiegazioni storiche e scientifiche su tutto quello che circonda la cucina giapponese.
Al di là dei piatti che sono diventati popolari a livello internazionale, la cultura culinaria di questo Paese si basa su ingredienti freschi, locali e stagionali (ad esempio germogli di bambù in primavera o castagne in autunno) che vengono preparati senza l’aggiunta di troppi condimenti e con metodi di cottura (al vapore, alla piastra o alla griglia) che consentono di conservare i sapori e gli aromi naturali. Gli chef e le casalinghe giapponesi hanno a disposizone una grande varietà di pesce, verdure e piante selvatiche commestibili per preparare piatti che si distinguono per la scarsissima quantità di grassi.
Uno dei fattori che hanno contribuito al riconoscimento del Washoku da parte dell’Unesco è l’uso sostenibile delle risorse naturali che contraddistingue la cucina tradizionale e che si riassumono nel termine mottainai (vietato sprecare).
Uno dei punti forti del libro (illustrato dall’inizio alla fine con bellissime fotografie a colori) è la parte dedicata alla tradizione kaiseki, un termine che nel sedicesimo secolo indicava i piatti semplici che si consumavano dopo la cerimonia del tè. Successivamente, il termine è invece servito a definire la cucina altamente sofisticata sviluppatasi alla corte imperiale di Kyoto. Un pasto kaiseki è caratterizzato da un menù fisso in cui ogni piatto è preparato secondo una tecnica diversa – in salamoia, crudo, alla griglia, fritto, al vapore – ma senza eccessive manipolazioni o aggiunte stravaganti, per cui si ha il modo di apprezzare i sottili sapori degli ingredienti originali. Il piacere della cucina non si ferma nemmemo all’aspetto gustativo o olfattivo perché il cibo è meticolosamente preparato e disposto su ogni piatto secondo i principi wabi-sabi di un’estetica allo stesso tempo semplice e raffinata. Ogni elemento, dai colori degli ingredienti alle stoviglie usate, viene scelto con cura in modo da ottenere il giusto equilibrio e da soddisfare sia il palato che l’occhio dei commensali.
Ironicamente, il riconoscimento internazionale del Washoku viene in un periodo in cui la cucina giapponese sta passando un momento di crisi proprio nel paese d’origine. Innanzi tutto sta diventando sempre più difficile mettere le mani su quegli ingredienti che sono così importanti per la buona riuscita del Washoku. Una delle ragioni è che durante la Bolla Economica degli anni ’80 i pescatori giapponesi hanno fatto man bassa di pesci, finendo con l’esaurire le riserve di pesca più vicine all’arcipelago. Probabilmente ancora più importante è il fatto che negli ultimi cinque o sei anni quelle stesse riserve di pesca si sono gradualmente spostate a nord, verso la Russia, in parte come conseguenza del riscaldamento globale e in parte a causa dello tsunami del 2011 che ha disastrato l’industria ittica del Tohoku. Sotto certi aspetti ancora più grave è che secondo recenti statistiche, a parità di spesa i giovani giapponesi spesso preferiscono andare al ristorante francese e italiano oppure, se vogliono spendere meno, possono scegliere fra una vasta gamma di cucine asiatiche. Come se non bastasse, adesso cominciano a scarseggiare persino i cuochi. Al momento attuale, infatti, solo circa il 10% degli studenti di cucina si specializzano in Washoku. A quanto pare tutti vogliono diventare pasticcieri (un campo in cui il Giappone ha raggiunto livelli di assoluta eccellenza) o lavorare in un ristorante italiano o francese – il che, viste le ricerche di mercato sopracitate, ha sicuramente senso.
Visto sotto questa luce, il libro e l’intero progetto della JCA acquistano un’importanza particolare, come un tentativo non solo di attirare l’interesse straniero ma anche di rinnovare quello degli appassionati locali. Il primo passo è sicuramente azzeccato e merita un posto privilegiato nella biblioteca gastronomica di ogni gourmet.
Gianni Simone
informazioni pratiche
Introduzione alla cucina giapponese. Natura, storia e cultura Shuhari Initiative, Tokyo, 2015
216 p., 75 euro