Oggi considerato come uno dei piatti più popolari del Paese del Sol Levante, la sua storia mostra come non sempre sia stato così.
L’apertura del Giappone all’occidente, circa 130 anni fa, è stata accompagnata da numerosi cambiamenti. Per coloro che militavano per un’occidentalizzazione a passi da gigante, era necessario introdurre cambiamenti radicali nel comportamento quotidiano dei giapponesi. Bisognava abbandonare le acconciature e gli indumenti tradizionali per adottare la moda proveniente dall’Inghilterra o dalla Francia. Era poi indispensabile che la popolazione si adattasse a nuove abitudini alimentari, in particolar modo introducendo nella dieta la carne, alimento considerato da molti fino ad allora come un tabù.
Il buddismo più rigoroso spingeva a un regime vegetariano (shojin ryori). L’influenza dei monasteri buddisti sulla popolazione era forte, senza dubbio era considerata un po’ troppo importante dai partigiani dell’autorità imperiale. L’instaurazione dello scintoismo come religione di Stato partecipa a questa volontà di cambiare le regole del gioco poiché il culto di cui l’Imperatore incarnava il più alto rappresentante non vietava il consumo di carne animale. Nel gennaio del 1872 i giapponesi vennero a sapere che il loro monarca aveva consumato della carne per celebrare l’Anno Nuovo, rompendo così un tabù in vigore da 1200 anni. Questa sorta di pubblicità riguardo alla nuova dieta dell’Imperatore aveva lo scopo di incitare i giapponesi a seguirne l’esempio.
Tuttavia, come sottolinea lo storico Pierre-François Souyri nel suo interessantissimo saggio “Moderno senza essere occidentale: alle origini del Giappone di oggi”, l’occidentalizzazione del Paese ha suscitato numerose resistenze. In quest’epoca di conflitti sociali, il cambiamento del regime alimentare dell’Imperatore provocò diversi incidenti fra cui il più celebre avvenne il 18 febbraio dello stesso anno. Una decina di monaci tentò di attaccare il palazzo imperiale, convinti che la consumazione di carne, sempre più diffusa nell’arcipelago, “minacciasse di distruggere l’anima del popolo giapponese”. Malgrado l’ottenimento di qualche successo in provincia, dove il potere dei monaci buddisti era più forte, coloro che si opponevano alla nuova corrente dovettero arrendersi all’evidenza: sarebbe stato impossibile impedire la trasformazione del Paese, anche per quel che riguardava l’alimentazione. Tuttavia, così com’era successo per altri aspetti culturali, l’apertura alla cucina occidentale non si è tradotta semplicemente nella banale importazione delle ricette, degli alimenti e del modo di consumarli. Grazie al proprio bagaglio culturale e alla loro esperienza, i giapponesi hanno saputo mutare le loro abitudini senza smarrire l’anima così come temevano i monaci ribelli.
Un piatto in particolare simboleggia questa evoluzione della società giapponese. Si tratta del tonkatsu, o cotoletta di maiale impanata e fritta. Il nome stesso illustra la capacità dei giapponesi di creare qualcosa di nuovo partendo da influenze diverse. In effetti, la prima sillaba “ton” significa “maiale” in giapponese, mentre la seconda “katsu”, è la trascrizione fonetica del termine inglese cutlet (katsuretsu), di cui si è conservata solo la prima parte per comodità. Il termine tonkatsu è apparso soltanto nel 1929. Questo prova che sono stati necessari circa sessant’anni perché i giapponesi “digerissero” le prime cotolette cucinate all’occidentale per creare uno dei piatti più caratteristici della cucina popolare.
In effetti, l’anno in cui l’imperatore Meiji consumò ufficialmente della carne, un libro molto diffuso sulla cucina occidentale svelava la famosa ricetta della cotoletta, rosolata nel burro dopo essere stata cosparsa di farina, passata nel rosso d’uovo e poi nel pangrattato. Il burro, tuttavia, non è un ingrediente che seduce il gusto dei giapponesi. È la frittura a base di olio vegetale che corrisponde meglio al loro palato come testimonia il successo del tempura nell’alimentazione giapponese fin dal sedicesimo secolo. Nel 1895 si ha conoscenza del primo ristorante di cucina “all’occidentale” (yoshoku) che servì cotolette fritte.
Si tratta del Rengatei, nel quartiere di Ginza. Il locale proponeva ogni sorta di piatto a base di prodotti importati quali il curry, introdotto dai marinai britannici. I giapponesi però, non frequentavano il ristorante. Erano piuttosto gli stranieri, attirati dal profumo del burro fritto, ad osannarlo, ma lo chef Kida Genjiro capì che la clientela locale faceva fatica ad abituarsi a quell’odore intenso. Operò quindi un cambiamento nella ricetta preferendo l’olio, un’innovazione che gli permise di conquistare il palato di numerosi clienti nipponici. Il Rengatei esiste ancora oggi e rimane un ristorante molto apprezzato. Gli si deve tra l’altro il fatto d’aver servito per la prima volta il tonkatsu accompagnato da cavolo crudo.
Il tonkatsu oggi è invariabilmente servito con cavolo crudo tritato. A differenza dei piatti di carne occidentali serviti sempre con un accompagnamento di verdure cucinate, la cotoletta fritta giapponese non gode di questo trattamento. Una caratteristica che la dice lunga sulla capacità dei giapponesi di accettare le novità adattandole al proprio gusto. Un modo originale per affermare che il tonkatsu non può corrispondere né a una milanese, né a una scaloppina viennese. Oltre al fatto che la carne utilizzata non è di vitello, ma di maiale, verso la quale la popolazione locale ha manifestato rapidamente una netta preferenza, lo spessore costituisce un’importante differenza. Quando i cuochi giapponesi cominciarono a preparare le prime cotolette, queste erano destinate soprattutto a clienti stranieri abituati a mangiare servendosi di coltello e forchetta. Le fette di carne erano sottili e corrispondevano ai criteri scelti per le cotolette servite in Europa. Malgrado le ambizioni delle autorità decise a portare la popolazione all’uso dei coperti occidentali a tavola, i giapponesi rimanevano fedeli alle loro bacchette. Il proprietario del ristorante Ponchiken, Shimada Shinjiro non è soltanto l’inventore, nel 1929, della parola tonkatsu; è anche colui che ha scelto di lavorare pezzi di carne più spessi e pre-tagliarli affinché i consumatori potessero afferrarli con le bacchette. L’evoluzione di questo piatto nell’arco di sessant’anni costituisce un esempio molto interessante di come il Giappone si sia trasformato nel corso di questo periodo estremamente importante della sua storia.
A partire da quest’epoca, il tonkatsu è entrato a far parte delle abitudini quotidiane dei giapponesi. Questi ultimi considerano questo piatto come un compromesso riguardo alla modernizzazione ispirata dall’Occidente. D’altra parte, è interessante notare come numerosi ristoranti di cucina tradizionale in difficoltà alla fine degli anni Venti abbiano scelto di specializzarsi nel tonkatsu. Il successo esponenziale di questo piatto si produrrà dopo la Seconda Guerra mondiale, in particolare in provincia dove fino ad allora la popolazione era stata meno disposta a “modernizzarsi”, rispetto ai grandi centri urbani. Il fatto che il tonkatsu fosse finalmente percepito come un piatto giapponese ha senza dubbio contribuito alla sua diffusione in tutto l’arcipelago.
Altro elemento importante del tonkatsu è la sua salsa, chiamata semplicemente tonkatsu sosu. Questa ha subito lo stesso processo di trasformazione e di adattamento attraversato dalla cotoletta stessa. La “giapponesità” del tonkatsu è tale da farlo percepire all’estero, in particolare nel resto dell’Asia, come un prodotto tipico della cultura culinaria nipponica. A partire dagli anni Ottanta, il tonkatsu è diventato un piatto molto popolare in Corea del Sud, grazie a un ristorante nel quartiere di Jeong-dong a Seul, che aveva la consuetudine di servirlo col kimchi e con radici marinate. Oggi, a Singapore o a Hong Kong, ristoranti specializzati in tonkatsu attirano migliaia di clienti che apprezzano le caratteristiche di questo piatto capace di condensare in sé lo spirito giapponese.
Sotto l’impanatura che può sembrare un po’ troppo dura, metafora ideale dei giapponesi che faticano ad aprirsi all’esterno, si scopre una carne tenera e gustosa, ulteriore metafora di questo popolo la cui apparenza rigida e imperturbabile corrisponde raramente alla realtà. Il tonkatsu ha saputo evolversi, ne esistono diverse versioni. La più celebre è il katsudon, una scodella di riso con in cima tonkatsu, uovo e verdure cotti in salsa di soja. Il katsukaré, riso al curry servito col tonkatsu, suscita l’entusiasmo degli amanti di una cucina speziata e saporita. Nei supermercati, troverete poi dei Katsu sando, dei sandwich di tonkatsu con pancarré. Esiste anche il kushikatsu, o spiedini di tonkatsu, o ancora i tonkatsu ramen, pasta in brodo con tonkatsu. L’esistenza di queste varianti indica che questo piatto appartiene al patrimonio culinario nipponico o almeno, questa è la percezione che ne hanno i giapponesi. 130 anni fa, questo non era affatto scontato.
Odaira Namihei