Tendenza : Il tôji è la Signora Imada

Con il “suo” saké, Imada Miho ha ottenuto per due anni di seguito il premio “Kura Master”. / Laura Liverani per Zoom Giappone


D’altra parte, quando è tornata nella fabbrica tradizionale di famiglia, due donne vi erano già impiegate. Da bambina vedeva sua madre lavorare il sakè. Durante la stagione della produzione, i tôji e i kurabito (artigiani della fermentazione) dormono nella fabbrica. Sua madre ogni giorno preparava i pasti per sette o otto artigiani, dall’alba fino a sera. “Si dice spesso che non c’erano donne nelle fabbriche di sakè, ma senza di esse, la produzione non sarebbe stata possibile, perché erano sempre le donne a sostenere e coadiuvare il lavoro degli uomini.”
Nella regione di Tôhoku, i tôji venivano accompagnati dalla loro moglie. “La presenza delle donne è quindi un concetto relativo”.
Imada Miho si è lanciata nell’universo del sakè di Hiroshima a 33 anni e continua ad avanzare e a imparare. Afferma di essersi sentita una professionista per la prima volta sette o otto anni dopo aver cominciato, quando il tôji che veniva a lavorare da sempre nell’azienda è andato in pensione e si è ritrovata a dover pianificare tutte le attività da sola. Si è messa allora alla ricerca del gusto di quello che poteva diventare il “suo” sakè, al contempo unico e legato al territorio.
Ha capito che se il sakè è fatto da riso e acqua, visto che la qualità dell’acqua rimaneva immutata, poteva cominciare la ricerca di un riso particolare. In questo modo ha scoperto il riso endemico della regione, l’Hattansô. Questa varietà, la cui taglia del chicco è due volte più grande delle varietà standard, quindi più difficile da coltivare, non esisteva quasi più. L’Istituto di Ricerca Agronomica che conservava questi semi ha accettato di affidarle una piccola quantità perché potesse provare a coltivarli.
Alla domanda sul perché avesse deciso di prendere questa iniziativa non priva di rischi, che richiedeva tempo e energia, Miho risponde che era semplicemente curiosa di scoprire il gusto nascosto nei piccoli semi di questo riso. Contrariamente alle varietà conosciute da molto tempo e impiegate nella produzione di sakè di qualità come la yamadanishiki, la Hattansô, secondo la produttrice, conserva una sorta di forza selvaggia, una colonna vertebrale ben eretta, e il sakè prodotto con questo riso può perfettamente accompagnare dei piatti alle erbe aromatiche.
In generale, il sakè si accorda male con le erbe dal sapore intenso, ma Miho assicura che la forza di questa varietà endemica permette questo abbinamento. L’imprenditrice si è poi lanciata alla ricerca di un gusto che potrebbe corrispondere ai piatti tipici della regione di Akitsu, e ha concepito un sakè utilizzando del kôji bianco.
In generale, durante la fermentazione, si utilizza il fungo kôji giallo, ma col bianco, l’acido citrico emerge maggiormente e si può così sposare a meraviglia con le ostriche, specialità di Akitsu, o con gli altri frutti di mare offerti dal Mare Interiore. Questa ricerca di varietà endemiche o di metodi di fabbricazione alternativi è una tendenza comune ai produttori appartenenti alle giovani generazioni: ricercano il senso del territorio, o un ritorno alle origini, e sono avidi di esperienze, per scoprire nuove opportunità per il mondo del sakè.
I sakè di Miho sono il frutto del dolce paesaggio della regione, e sono oggi apprezzati non soltanto in Giappone, ma anche all’estero. Due cuvée hanno ottenuto per due anni di fila il premio “Kura Master”, una ricompensa creata dai sommelier francesi.
Oggi le donne non si accontentano più di un semplice ruolo di sostegno agli artigiani uomini, lavorano bensì al loro fianco sui luoghi della preparazione del sakè e alcune di loro diventano tôji, responsabili della produzione di sakè, grazie al fatto che il metodo di lavoro è cambiato.
Nell’epoca in cui gli artigiani lavoravano e vivevano insieme sul posto per mesi, era difficile per le donne far parte di questo mestiere. Erano obbligati ad avere queste abitudini non solo perché venivano spesso da altre città, ma anche perché il lavoro cominciava molto presto la mattina ed era necessario sorvegliare giorno e notte l’evoluzione della preparazione del kôji, le spore di fungo indispensabili alla fermentazione.
Imada Miho afferma che per la sua generazione, era necessario scegliere o il mestiere di tôji o una vita “da donna”: sposarsi e avere figli. Oggi, grazie alle nuove tecnologie, si può gestire la temperatura del kôji a distanza. Altri controlli di igiene o di fermentazione sono diventati più facili da compiere per merito delle innovazioni tecniche ed è possibile così avviarsi in una carriera di tôji, occupandosi al contempo della propria vita privata.
Grazie agli uomini tôji che avevano il senso della trasmissione del sapere, Miho ha potuto così formarsi ed è ottimista riguardo al futuro delle donne in questo mestiere.