Edizioni : Un fermento permanente

Riviste femminili in un’edicola di Tôkyô / Eric Rechsteiner per Zoom Giappone

La stampa femminile mette in luce quanto il ruolo delle donne si sia affermato nella società giapponese.

Ormai da molti anni le donne rivestono un ruolo chiave nella moderna società giapponese, guadagnandosi sicuramente il ruolo di maggiori consumatrici del Paese. Benché le donne si trovino ancora troppo spesso escluse dalle decisioni politiche ed economiche, sono diventate nel tempo le assolute protagoniste del mercato. I media, trattando temi quali l’amore, la sessualità, l’età, la famiglia, l’alimentazione e la moda, hanno fornito loro i mezzi per diventare delle pioniere, rendendole più pronte ad affermare la loro nuova identità e a dare un differente significato alla loro esistenza.
Le riviste femminili sono lo specchio perfetto di questo mondo perché sottolineano costantemente le contraddizioni delle donne giapponesi, in bilico tra oriente e occidente, tradizione e modernità, continuità e cambiamento. Anche solo una breve visita in una libreria permette di notare i numerosi scaffali dedicati esclusivamente alle riviste femminili, divise fra titoli dedicati alle adolescenti, alle ventenni, alle donne sposate con figli o ancora alle donne che hanno scelto di privilegiare la carriera. In tutte queste pubblicazioni l’elemento comune è uno solo: lo status delle donne rappresentate, colte e abitanti della capitale; in altri termini l’aspirazione della maggior parte delle donne giapponesi.
Il ruolo delle riviste femminili ha però conosciuto diverse fasi storiche. La prima copre la prima metà del XX secolo fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale e ha visto la diffusione di mensili come Fujin Gahô (1905), Fujin Kôron (1916), Shufu no Tomo (1917) e Fujin Kurabu (1920). Con la vistosa eccezione dell’estremamente liberale Fujin Kôron, queste pubblicazioni miravano a insegnare alle donne come essere “buone mogli e madri previdenti”.

Le giapponesi sono diventate il target principale degli editori di riviste. / Eric Rechsteiner per Zoom Giappone


Nell’immediato dopoguerra e fino alla metà degli anni ‘50, il Giappone si è caratterizzato per una rapida ripresa economica e per l’aspirazione ad un tenore di vita superiore. Nuove riviste come Shufu to Seikatsu (1946) o Fujin Seikatsu (1946) si sono adattate al cambiamento, abbandonando la tendenza normativa dei loro predecessori per focalizzarsi su consigli pratici relativi alle faccende domestiche, con un uso crescente della fotografia.
In seguito, e fino alla fine degli anni ‘60, iniziò l’epoca dei settimanali dedicati alla vita privata delle celebrità. Tuttavia, la principale tendenza di questo periodo era piuttosto la nascita di riviste femminili più ambiziose, che facevano sognare alle lettrici una vita più ricca. Queste testate, spesso con nomi stranieri come Misesu [Signorina] o Madamu [Signora], cominciavano a suggerire alle loro lettrici come godere al meglio della vita. Mentre le precedenti pubblicazioni insegnavano alle donne a ricamare i propri vestiti, le nuove insistevano sul loro acquisto. Il cambiamento era ancora più vistoso attraverso le pubblicità: i prodotti per la casa cominciavano a essere rimpiazzati da inserzioni di moda, accessori e relax e le lettrici erano sempre di più considerate consumatrici autonome.
La prima rivista di questo nuovo corso fu Katei Gahô, periodico nato nel 1958 che tentava allora di raggiungere le casalinghe della classe medio-alta, sulla quarantina e con figli almeno adolescenti. Queste caratteristiche consentivano infatti di dedicare più tempo ai piaceri della cucina, della moda e dell’arredamento della casa. La rivista è stata decisamente influenzata dall’americana Life, il che ha creato un notevole scandalo quando fu scoperto. All’epoca non esistevano delle riviste veramente attente alla grafica, sul mercato giapponese. Katei Gahô si distingueva per il lusso e per l’attenzione alla tradizione, combinazione che garantiva alle pubblicazioni un carattere esclusivo, sofisticato e dedicato alle classi sociali medio-alte. La rivista rispecchiava inoltre alla perfezione un tipico approccio dei media alla questione della conservazione della cultura tradizionale giapponese. Le donne erano viste come le guardiane delle pratiche tradizionali quali la cerimonia del tè o le composizioni floreali. È interessante ricordare che queste pratiche erano una volta invece prerogativa degli uomini, persino degli stessi samurai, e avevano una forte caratterizzazione maschile.
Le star della pagine di Katei Gahô parevano vivere in un passato idealizzato, ragion per cui portavano spesso un kimono, vestito che all’epoca era usato solo per rarissime occasioni; sotto questo punto di vista la rivista può essere sicuramente considerata come un bastione del conservatorismo. Era infatti l’epoca in cui le giovani erano incoraggiate a coltivare dei passatempi una volta riservati all’élite, nella prospettiva di trovare più facilmente un marito e predisporsi a quella vita che i sociologi culturali Lise Skov et Brian Moeran hanno definito “una vita di coppia noiosa ed oziosa”. Ancora oggi, per quanto non sia ovviamente richiesta la conoscenza delle arti tradizionali per potersi sposare, tale conoscenza sopravvive nei centri culturali di tutto il Paese proprio grazie al contributo delle donne.

Lo sviluppo dell’occupazione femminile ha fatto evolvere il contenuto delle riviste. / Eric Rechsteiner per Zoom Giappone


Gli anni ‘70 segnano una vera rivoluzione nell’universo editoriale, con la comparsa di riviste come An An (1970), Non-No (1971), More (1977) e Croissant (1977). Il Giappone si trovava in un periodo di forte crescita economica, le categorie sociali tradizionali cominciavano a sgretolarsi mentre il numero di donne al lavoro cresceva in modo spettacolare. Da semplici componenti di una famiglia, le donne sono state per la prima volta considerate come persone dotate di propri specifici interessi ed esigenze. Insieme al loro reddito cresceva parallelamente l’interesse per viaggi e uscite al ristorante, il che diede ovviamente una spinta alle nuove pubblicazioni a tema. Titoli come Kurowassan sono stati infatti etichettati come “nuove riviste di famiglia”, un termine riferito ai nati nel baby-boom, che diventavano allora ventenni e avrebbero dovuto formare un nuovo tipo di famiglia.
Lo stesso anno 1975 era stato designato Anno Internazionale della Donna, e i media giapponesi cominciarono ad interessarsi alla “donna volante”, riferimento al best-seller di Erica Jong Fear of Flying (in Italia, Paura di volare), categoria di donna che mirava a uno stile di vita differente da quello della tradizione giapponese.
Nello stesso decennio la pubblicità conquistava man mano uno spazio sempre più imponente nelle riviste. Nel 1979, il numero totale di pubblicità nelle settantotto principali pubblicazioni superava le centomila pagine. Nei sei titoli principali, la proporzione di pagine pubblicitarie si situava tra il 25% e il 55% (An An), e a questo dato bisogna ovviamente aggiungere la pubblicità nascosta negli articoli. La dipendenza dell’editoria dalla pubblicità è considerevolmente cresciuta: tra 1976 e 1985 le tariffe pubblicitarie si sono moltiplicate per 2,46, mentre nello stesso periodo il ricavato delle vendite dirette è cresciuto solo per 1,86. Generalmente, la linea editoriale delle riviste femminili era ed è ancora vista come piuttosto debole, perché i rapporti economici pubblicitari dominano il contenuto del giornale, specialmente in settori come la moda. Le riviste giapponesi raccolgono abitualmente i dati delle loro lettrici tramite sondaggi ed inchieste, che indagano il loro stile di vita, la condizione economica e le loro opinioni su una vasta gamma di temi. Queste informazioni sono naturalmente trasmesse agli inserzionisti, per rafforzare la collaborazione.
Negli anni ‘80 il “grande disegno” del primo ministro Nakasone Yasuhiro, che puntava ad un’apertura internazionale del Paese, condusse alla liberalizzazione del mercato finanziario e ad un boom dei consumi, di cui le donne delle grandi città furono l’avanguardia. Nel 1982 la metà delle donne sposate lavorava, mentre molte altre aspiravano a seguirle. La legge sulle pari opportunità del 1986 non migliorò realmente il loro status nel mercato del lavoro, ma il dibattito per l’uguaglianza dei sessi portava gradualmente alla luce idee di indipendenza ed individualismo. Il principio guida era che le donne dovessero fare ciò che davvero desideravano.
Nei trent’anni che seguirono la fine della Guerra, la società giapponese era dominata dai valori confuciani di sopportazione e duro lavoro, conseguenza naturale dell’idea che ognuno dovesse mettere da parte i propri piaceri per il bene comune. Eppure dagli anni ‘80 in particolare le donne single, a lungo emarginate nel campo politico ed economico, cominciavano a considerare di avere il diritto di godersi a pieno la vita e di spendere autonomamente il proprio denaro nella moda, nei piaceri e nella cultura. Furono per la prima volta anche toccati dei settori che fino a quel momento erano appannaggio esclusivo degli uomini: giovani donne cominciavano ad andare in moto, a bere nei locali, a giocare a golf e a scommettere sulle corse di cavalli. Sono state rapidamente soprannominate oyaji-girls (old-man/girls).
In quell’epoca il posto occupato dalle riviste toccò l’apice nel settore dell’editoria. Non meno di mille trecento riviste furono lanciate tra il 1980 e il 1985, in costante ascesa rispetto alle vendite di libri, in declino continuo dal 1945. Le riviste femminili furono le grandi vincitrici del duello, con un tiraggio medio di diverse centinaia di migliaia di esemplari. La prima della classifica era Non-no, rivista destinata alle ragazze tra i dodici e i diciannove anni capace di raggiungere la strabiliante cifra di 1,3 milioni di esemplari. L’inizio degli anni ‘80 è stato parallelamente segnato dalla diffusione di edizioni giapponesi di riviste occidentali, come Cosmopolitan (1980) e Marie Claire (1982), mentre numerosi titoli locali prendevano dei nomi occidentalizzanti, come 25ans (1980), Lee (1983), ViVi (1983), Classy (1984), Sophia (1984) e Ef (1984).
La crescente specializzazione e le tendenze sempre nuove del mercato editoriale hanno reso ogni fase successiva sempre più corta e competitiva. Così la sesta fase della rivista giapponese non copre che gli anni dal 1985 al 1989. In questo periodo il mercato veniva dominato da titoli che miravano a single tra i venticinque e i trentanove anni, considerate parte di una “élite cosmopolita” dell’epoca della bolla finanziaria. Si trattava di donne lavoratrici, che viaggiavano all’estero e acquistavano prodotti di marca piuttosto costosi, senza esitare ad andare in Italia o in Francia esclusivamente per fare shopping di lusso. Pur occupando dei ruoli subalterni sul posto di lavoro, questa categoria di donne disponeva di un salario sufficiente a soddisfare gran parte dei suoi desideri materiali.
Il principale avvenimento editoriale legato a questo fenomeno è stato l’emergere di Hanako (1988). Destinata alle giovani OL (Office Ladies, impiegate d’ufficio) che avevano un salario da spendere, la rivista era venduta soltanto nella zona di Tôkyô e forniva informazioni su negozi, ristoranti e teatri nella zona della metropoli. Questa rivista diede vita alla cosiddetta tribù Hanako (Hanako zoku) che nel picco della bolla finanziaria coinvolgeva le donne sulla ventina, desiderose di consumare, di viaggiare spesso all’estero, di acquistare prodotti di marca, di frequentare ristoranti costosi e di assistere agli spettacoli. Infatti, Hanako offriva consigli sulla maniera di affrontare questioni come la prenotazione di una camera d’albergo all’estero, il modo corretto di rivolgersi alla reception di un hotel o, ancora, i prodotti di marca da comprare.
Contemporaneamente, un altro avvenimento editoriale significativo mise in evidenza una tendenza completamente nuova. Alcune catene di distribuzione come Daiei e Seiyu cominciavano a pubblicare i propri titoli, ad esempio Orange Page (1986) e Lettuce Club (1986), e li distribuivano nei loro supermercati. Tendevano ad essere meno cari dei loro concorrenti e prediligevano informazioni pratiche, come la gestione domestica, sulle orme delle riviste nate dopo la Seconda Guerra Mondiale. Di fatto, queste nuove pubblicazioni anticipavano la grave recessione che colpì il Giappone nel corso dei due decenni seguenti. Con lo scoppio della bolla finanziaria all’inizio degli anni ‘90, i gusti dei consumatori diventavano sempre più sobri, per orientarsi verso una vita più moderata e “autentica”. Numerose riviste femminili si adattarono a questa nuova situazione proponendo articoli sul modo di gestire al meglio i propri guadagni: una rivista lanciò persino una rubrica intitolata “Sono avara”, dove alcune lettrici suggerivano come risparmiare.

Una lettrice potenziale di I Love Mama, rivista creata nel 2008 per le gyaru con bambini. / Eric Rechsteiner per Zoom Giappone


Nel corso di questo periodo, sempre più donne decidevano di rinviare il matrimonio per concentrarsi sulla carriera o per liberarsi dalle responsabilità familiari: le riviste femminili indicavano loro come fosse possibile fare fronte al nubilato all’interno di una società che ancora valorizzava la figura della donna come moglie e madre. Ciononostante, numerose riviste avevano un approccio leggermente ambiguo a riguardo, giocando spesso sulla confusione e sull’ansia delle giovani lettrici. Da un lato, mostravano un esplicito rifiuto di quelli che possiamo definire i “valori tipicamente giapponesi” per mettere l’accento su mode e novità spesso importate dall’estero con l’intento di soddisfare il desiderio di indipendenza delle donne e la loro ambizione di raggiungere l’élite culturale mondiale. Dall’altro, rammentavano però che l’essere indipendente era considerato egoista dalla morale dominante: una donna poteva divertirsi per qualche anno, ma da lei ci si aspettava che diventasse alla fine una moglie e una madre matura, modesta e premurosa.
Un’altra caratteristica interessante delle riviste femminili è il linguaggio di cui si servono.
Mentre lo stile dei numerosi periodici giapponesi può essere definito di distanza formale, le riviste femminili utilizzano spesso un tono brutale e denso di imperativi per dare istruzioni dettagliate su vestiti e trucco. In altri termini, le riviste giapponesi sanno ciò che è meglio per le loro lettrici e non moderano di certo le parole per nasconderlo. L’effetto generale è allo stesso tempo autoritario e intimo: potrebbe quasi essere definito condiscendente. Tuttavia, il successo di queste pubblicazioni nel corso degli anni sembra indicare che le lettrici non ne tengano particolarmente conto.
Secondo certi ricercatori che hanno analizzato questo stile di scrittura, le riviste femminili sono considerate dalle loro lettrici come delle autorità che insegnano loro cosa fare e come farlo. Si può notare come negli articoli venga ripresa la lingua delle scuole giapponesi, incoraggiando l’imitazione e la ripetizione, elementi importanti dell’apprendimento. Il messaggio sottinteso è che le donne, in particolare quelle sulla ventina, sono poco sicure di sé stesse e hanno bisogno di consigli. Dopo avere trascorso sei anni alle medie e al liceo, dove devono indossare uniformi e seguire regole severe riguardo ad acconciature e accessori, si ritrovano d’un tratto libere di scegliere il loro aspetto; tuttavia, questa libertà, certo entusiasmante, è allo stesso tempo paralizzante e per questo le donne cercano consigli, trovandoli nelle riviste.
È interessante notare il numero crescente di pubblicazioni, apparse alla fine degli anni ‘70 e destinate alle studentesse, che consigliavano spesso alle loro lettrici di vestirsi in modo tradizionale, come se fosse imperativo, dopo un lungo periodo passato a essere trattate come delle bambine, crescere rapidamente e prepararsi ad entrare nell’età adulta. Queste riviste arrivarono persino a creare delle pubblicazioni gemelle adattate al momento in cui le lettrici sarebbero entrate nella fase successiva della loro vita: JJ (1975) e CanCam (1981) lanciarono infatti rispettivamente Classy (1984) e AneCan (2007) per le giovani donne dai venticinque ai ventinove anni. Come di consueto, si può sottolineare la sinergia inevitabile che ogni nuovo titolo crea tra l’universo editoriale e quello degli affari. Per esempio, al momento del lancio di AneCan, la grande rivista Isetan e diverse aziende d’abbigliamento collaborarono con il periodico per creare dei marchi del tutto nuovi. È stato riportato che, dopo che AneCan fece la sua apparizione, i marchi segnati come “AneCan Style” vendettero vestiti per 30 milioni di yen in soli quattro giorni. Riviste come CanCam contribuirono anche al successo di celebri modelle che hanno poi avuto carriere di successo nella musica e nel teatro. Ebihara Yuri, ad esempio, fu una modella esclusiva di CanCam, tra i ventiquattro e i ventotto anni, prima di lavorare per AneCan durante gli otto anni seguenti e prima di firmare un contratto con Domani, una rivista per trentenni sposate e attive.
Gli anni ‘90 videro un’esplosione di riviste per adolescenti, le kôgyaru (le liceali), diventate le nuove grandi consumatrici e creatrici di tendenze in Giappone. Le vecchie pubblicazioni come Seventeen (1967) e Popteen (1980) venivano raggiunte da titoli molto popolari come Nicola (1997). È in questo periodo che il kawaii (carino/grazioso), il primo stile veramente giapponese del dopoguerra, conquista il mondo. Ma il kawaii non fu il solo concept a emersgere, anche la street mode e la cultura gyaru (da “girl”) influenzarono fortemente la moda giovane. La cultura gyaru, in particolare, costituiva un fenomeno fondato sulla ribellione al conformismo della società giapponese, compresi i canoni di bellezza dell’incarnato pallido e dei capelli scuri. La sua popolarità raggiunse l’apice negli anni ‘90 e all’inizio degli anni 2000, con migliaia di ragazze abbronzate e bionde che invasero le strade di Shibuya e di altri quartieri alla moda. Tale tendenza disponeva delle proprie riviste di successo, da Egg (1995-2014, ormai soltanto online) a I Love Mama (2008-2014) per le gyaru con dei bambini o, ancora, Koakuma Ageha (2005) destinata alle giovani donne interessate principalmente all’arte dell’ospitalità.
Il numero di riviste femminili non ha smesso di crescere neanche dopo la fine del secolo. Nel 1988 esistevano sessantuno riviste femminili con una diffusione di oltre diecimila copie, nel 1992 ne esistevano almeno ottanta. Nel 2020, la banca dati online dell’Associazione giapponese degli editori di riviste individua cento quarantotto titoli, ma il numero reale è sicuramente maggiore. Il mercato è più diversificato che mai: nuovi titoli escono senza sosta e alcuni più vecchi spariscono dalle edicole. Katei Gahô e Fujin Gahô sono tra le eccezioni che sono riuscite ad adattarsi a lettori in costante evoluzione. Fujin Gahô, ad esempio, è una delle più vecchie riviste ancora in circolazione e dispone tuttora di una diffusione rispettabile di 94 000 copie.
Ciò detto, le nuove tendenze del lettore e soprattutto la concorrenza di internet hanno fortemente attaccato la circolazione delle riviste. All’inizio degli anni ‘90, per esempio, la stampa mensile totale di sei grandi titoli (An An, Non-No, JJ, More, 25ans e With) superava i 7,6 milioni di copie. Oggi, il numero si aggira intorno alle 800 000 copie per i più importanti, scendendo a 70 000 per 25 ans e 195 000 per More.
Nonostante tutto, le riviste femminili continuano ad aprire uno spiraglio su quel che significa essere una donna in Giappone: i gusti in fatto di cibo, svaghi e sesso; le emozioni, le preoccupazioni e le ambizioni; la maniera di prendersi cura del proprio corpo e di cercare un partner.
G. S.

Per saperne di più
Women, Media and Consumption in Japan, direzione di Lise Skov e Brian Moeran, University of Hawai’i Press, 1995.
Japanese Women’s Magazines, Tanaka Keiko, in The Worlds of Japanese Popular Culture, direzione di D.P. Martinez, Cambridge University Press, 1998.