Nessun’altra città al mondo ha mutato di fisionomia così tante volte quanto la capitale giapponese
Nel 1998 per la prima volta nella storia dell’umanità, il numero degli abitanti in zone urbane nel mondo ha superato quello delle persone residenti nelle zone rurali. In Giappone questo fenomeno è visibile ovunque, in particolare lungo l’antica strada di Tokaidô, dove, da Tôkyô a Kobe, le città si succedono senza interruzione.
La più grande è certamente la capitale. Coi suoi 38 milioni di abitanti, quella che viene chiamata la Grande Tôkyô è la regione metropolitana più densamente popolata al mondo. È, allo stesso tempo, la più grande metropoli in termini di sedi sociali di imprese e di istituti bancari, aspetto piuttosto inquietante se si considera la storia delle catastrofi naturali che hanno colpito questa parte del paese.
Questo tipo di sviluppo incontrollato genera sovente numerosi problemi strutturali e sociali di una certa gravità. Tuttavia, pur non essendo esattamente un paradiso terrestre, l’agglomerazione tokioita è riuscita ad evitare la maggior parte di mali legati a un’urbanizzazione intensa. Pur inquinata e spesso congestionata dal traffico, ha un tasso di criminalità relativamente debole, una rete di trasporti pubblici efficace e quartieri piuttosto accoglienti.
L’architettura in Giappone è celebre per la sua grande qualità e il suo alto livello di rifiniture, risultato di studi accurati e di un lavoro di squadra ben coordinato. Ecco perché, nel corso degli ultimi 30 anni, Tôkyô è diventata un luogo immancabile per numerosi appassionati d’architettura. In particolare, il suo centro potrebbe essere considerato come un laboratorio sperimentale sull’avvenire urbano dell’umanità.
Questa «città totale» non finisce mai di evolversi e reinventarsi, con edifici e talvolta quartieri interi che spariscono di colpo per essere sostituiti da qualcosa di completamente diverso.
Costantemente rimodellata dalle catastrofi, sia naturali, sia provocate dall’uomo, e dalle regole del mercato immobiliare, nulla è sacro e tutto è permesso. Soltanto a Tôkyô, d’altra parte, un capolavoro come l’Hotel Imperial concepito da Frank Lloyd Wright ha potuto essere abbattuto senza cerimonie, dopo essere sopravvissuto ad un terremoto devastatore e alla guerra.
Questa città è un luogo che suscita forti reazioni. È impossibile rimanere indifferenti: o la si ama, o la si odia. Si può dire la stessa cosa del suo aspetto. Sotto diversi punti di vista, si può dire che Tôkyô sia la più bella e la più brutta città del mondo.
I visitatori che arrivano per la prima volta, rischiano di subire un trauma visivo scoprendo una città che si estende in tutte le direzioni, in maniera apparentemente caotica. A Tôkyô, il caso sembra farla da padrone. Senza nulla che evochi i codici dell’urbanesimo, senza forma riconoscibile o skyline chiaramente definita, questa città eccelle nei dettagli, ed è un luogo dove i dettagli hanno la priorità sulla veduta d’insieme.
Come certi osservatori hanno notato, la sola norma esistente risiede nella coesistenza non pianificata.
La sua configurazione labirintica (la maggior parte di strade non hanno nome e il sistema di indirizzi si direbbe sia stato concepito per rendere la gente pazza) è tale che è facile perdersi e, in un certo senso, ci si augura di perdersi.
È molto più divertente passeggiare senza guida e senza smartphone, smarrirsi e scoprire una nuova meraviglia o curiosità ad ogni angolo di strada (senza temere di essere aggrediti), imbattersi in costruzioni ammirevoli o strane che non hanno nulla a che vedere con l’ambiente in cui sono state edificate.Questo vale anche per gli alloggi residenziali (in particolare le case private di due o tre piani), un settore nel quale i giovani architetti hanno l’occasione di sperimentare e mettere in pratica nuove idee. Il paesaggio urbano di Tôkyô è unico per la sua assenza quasi totale di omogeneità architettonica.
Il piccolissimo e il colossale si succedono in un’alternanza di superfici vetrate, di alluminio e di cemento. La notte, le luci trasformano la capitale in un’apparizione fantastica di catene di montagne artificiali, di luci e di canyon profondi. Ci si mette un po’ a capirlo, ma si finisce per rendersi conto che la capitale, ben lungi dall’essere davvero caotica, è divisa in diversi ecosistemi.
In altri termini, Tôkyô non è una città di spazi, come la maggior parte di realtà urbane occidentali, ma una città «di situazioni»; un agglomerato di villaggi o di quartieri specifici, ognuno col proprio carattere, ognuno consacrato a un mestiere particolare (strumenti musicali a Ochanomizu, utensili di cucina a Kappabashi, stoffe a Nippori, libri rari e d’occasione à Jinbôchô). Le persone si dirigono verso un quartiere in funzione dei loro interessi o del loro desiderio di shopping.
Sembra che nel corso di tutto il ventesimo secolo, a circa vent’anni di intervallo, avvenimenti di una portata eccezionale abbiano fortemente influenzato la sua fisionomia.
Nel 1923, ad esempio, l’antica città tradizionale risalente all’epoca Edo (1603-1868), fu quasi interamente distrutta da un grande terremoto che uccise 105 000 persone, distrusse più di 570 000 abitazioni e lasciò dietro di sé circa due milioni di senzatetto.
I lavori di ricostruzione intrapresi nel corso dei due decenni successivi offrirono un’occasione unica di ridisegnare la città secondo un approccio moderno più razionale, ma in fin dei conti, non ne è uscito nulla di particolare.
Nel frattempo, il governo finanziò un ambizioso progetto di costruzioni residenziali che sfociò nella creazione di Dôjunkai, la cui missione consisté nel creare degli alloggi moderni in immobili collettivi di tre piani costruiti in cemento armato attorno a una corte. Negli anni Trenta, un movimento modernista fu all’origine di una serie di opere architettoniche stupefacenti, caratterizzate da una sobria funzionalità, come la sede centrale delle poste, concepita da Yoshida Tetsurô, l’edificio si può tuttora vedere all’uscita Marunouchi-Sud della stazione di Tôkyô.
Vent’anni dopo il terremoto, un’altra catastrofe colpì la capitale giapponese: i bombardamenti americani. La metà delle case venne distrutta e 250 000 persone trovarono la morte.
Ancora una volta Tôkyô si rialzò in piedi, anche se in questa occasione il governo privilegiò la quantità alla qualità per rispondere alla domanda di alloggi residenziali.
Questo periodo di ricostruzione sfrenata culminò con l’inaugurazione nel 1958 della Torre di Tôkyô, alta 333 metri, autentico gigante architettonico in una città dove, all’epoca, gli edifici più altri non superavano gli otto o dieci piani.
Negli anni Sessanta, il Giappone mise da parte i costumi e l’estetica del passato e adottò una modernità radicale. Tôkyô divenne un mercato e un laboratorio pronto ad accogliere nuove idee e tecnologie senza soffermarsi sugli aspetti negativi di una tale scelta. Si trattava di volgere lo sguardo verso il futuro invece di trovare appoggio sulla tradizione passata. Su questo aspetto, i Giochi Olimpici del 1964 furono stimolanti per la riorganizzazione della città. Le autorità volevano mostrare al resto del mondo ciò che il Giappone aveva compiuto dalla fine della guerra, e Tôkyô cominciò ad essere conosciuta come «la città del futuro», poiché non aveva paura di sperimentare e andare incontro alle novità.
Negli anni Sessanta, ad esempio, degli architetti visionari provenienti dal movimento del «metabolismo», sognavano di città nel cielo, di unità residenziali galleggianti, oppure smontabili e facilmente trasportabili ovunque su un camion.
Tange Kenzo, in particolare, svelò il suo progetto per la Tôkyô di 15 milioni di abitanti, immaginando l’espansione della città sulla baia, grazie a strutture gigantesche costruite sull’acqua.
La comunità estera degli architetti e di altri creativi cominciò a interessarsi al progetto. Il regista russo Andreï Tarkovski vide nella giovane autostrada metropolitana di Tôkyô, creata per i Giochi Olimpici, una visione del futuro, e venne dall’Europa per filmare lunghe sequenze di sogni ipnotici per il film Solaris, sua opera del 1972. Dieci anni più tardi, Ridley Scott girerà Blade Runner, immaginando la sua Los Angeles del 2019 secondo il modello di un contemporaneo Shinjuku, coi suoi milioni di luci e di pubblicità, e gli schermi giganti popolati da sensuali ragazze dagli occhi a mandorla. Ancora una volta, vent’anni dopo i Giochi Olimpici, la bolla economica portò dei livelli di prosperità senza precedenti e generò tutta una serie di progetti ambiziosi, le nuove strutture di uffici e di commerci divennero il volto del successo economico del Giappone, modificando radicalmente il volto della capitale.
Da un lato, le imprese esigevano strutture vistose, adatte ad attirare la clientela e a rivestire la funzione di strumento pubblicitario. Dall’altra, numerosi architetti abusarono del post-modernismo, concependo edifici dove citazione, simulazione, collage e imitazione – opportunamente presentati ai loro clienti come «ibertà creativa» – s’imponevano come nuove parole chiave nel codice architettonico. Con budget all’apparenza illimitati e una libertà quasi totale, immaginarono le costruzioni più barocche, in grado di sfidare ogni logica.
Persino una personalità come Kuma Kengo, oggi celebrato nel mondo intero per le sue strutture in legno create con l’intento di recuperare i principi dell’architettura tradizionale giapponese, costruì, nel 1991, l’M2, un edificio che si potrebbe confondere con un love hotel, dove elementi ispirati all’architettura occidentale, in particolare una massiccia colonna ionica di sei piani, sono stati trasformati in maniera molto kitsch.
L’apice dell’architettura dimostrativa fu rappresentato da progetti stranieri. Grazie alla forza dello yen, le imprese locali poterono invitare celebri architetti occidentali a produrre delle creazioni sempre più mirabolanti.
Le opere di Nigel Coates e di Philippe Stark ne sono un tipico esempio. Il primo ha avuto la fortuna di erigere due edifici vicini: il Penrose Institute of Contemporary Arts e il The Wall. Il primo fu probabilmente troppo avanguardista, troppo in vista per la folla edonista e frivola del quartiere di Nishi Azabu. L’edificio, con le sue quattro imponenti colonne doriche, è sempre là, ma la galleria d’arte è stata rimpiazzata da un ristorante. Il secondo, The Wall, è senza dubbio il più incredibile.
Di fronte a un edificio molto più austero concepito da Tadao Andô, introdusse bruscamente l’antica storia romana in una via anonima. Sembra che dei muratori italiani avessero viaggiato fin qui in aereo per applicare la copertura finale, creando così un muro invecchiato artificialmente. Superfluo dire che anche questo finto edificio antico, ospita un ristorante.
Quanto a Philippe Stark, ha offerto a Tôkyô un oggetto spettacolare e misterioso grazie a Asahi Beer, uno dei principali produttori di birra del paese. Situato vicino alla nuova sede sociale, la hall della fabbrica di birra concepita da Stark è un edificio in granito nero sormontato da una fiamma dorata di 360 tonnellate. La Fiamma d’oro rappresenterebbe al contempo il «cuore bruciante della Asahi» e un capo ricoperto di schiuma.
Lo scoppio della bolla finanziaria non soltanto mise fine alla frenesia di costruzioni stravaganti, ma mise in luce la vastità delle pratiche oscure in corso da anni nel settore edile. Nonostante questo, i cantieri non hanno mai cessato di moltiplicarsi. La battuta d’arresto riguardò solo le costruzioni più bizzarre. I due primi decenni del nuovo secolo hanno piuttosto permesso di migliorare la reputazione degli architetti giapponesi: diversi fra di loro hanno ottenuto l’ambito premio Pritzker, l’equivalente per l’architettura del premio Nobel.
Nel corso del secolo scorso, un elemento costante di questo ciclo quasi continuo di distruzione e ricostruzione è stato il contrasto tra edifici in costante evoluzione e una rete stradale urbana quasi immutata, risalente all’epoca premoderna e preindustriale. Ne risulta che gli architetti hanno dovuto adattare i loro progetti a spazi di forma strana, spesso dando così origine a strutture triangolari o dalla forma comunque insolita, o a quei famosi edifici talmente stretti da avere un aspetto quasi bidimensionale.
Costruito alla fine degli anni della bolla economica, il museo di arte contemporanea Watari di Marion Botta è un esempio perfetto del modo in cui le necessità dei clienti e la visione dell’architetto si urtano sovente all’ambiente nel quale è prevista la costruzione dell’edificio. Tuttavia, nel caso del Watari-um (il museo viene spesso chiamato così), i danni creati dall’uomo risalgono a un evento più recente, i Giochi olimpici del 1964. Questo avvenimento sportivo venne preceduto da un periodo di progettazione movimentato che generò diverse decisioni precipitate.
In questo caso preciso, una nuova strada, la Gaien-nishi-dôri, fu costruita per collegare Shinjuku e Shinagawa, tagliando attraverso numerosi quartieri residenziali senza tener conto delle vie strette e delle antiche parcelle rettangolari sopravvissute fino a quest’epoca. Come scrisse l’architetto nella presentazione del suo progetto, «Tôkyô porta agli estremi le contraddizioni delle città moderne».
Questo l’ha obbligato a trovare «un’immagine forte e precisa che doveva resistere alla confusione e alle contraddizioni delle lingue, degli stili e delle forme presenti nella città».
Oggi Tôkyô sembra una massa informe che tenta di contenere una comunità di umani, in piena espansione. La sua popolazione raggiunse il milione di abitanti nel 1884.
Irresistibilmente attratta dalle possibilità apparentemente infinite offerte dalla capitale, sempre più gente affluì in massa. Trent’anni più tardi, nel momento del catastrofico sisma, gli abitanti erano diventati quattro milioni. Nel 1941, quando il Giappone dichiarò guerra agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna, la popolazione aveva già raggiunto i sette milioni di abitanti. La guerra del Pacifico portò con sé morte e distruzione, ma quando i Giochi Olimpici del 1964 celebrarono il ritorno del paese sulla scena mondiale, a Tôkyô vivevano più di dieci milioni di persone.
Oggi la metropoli conta più di 13 milioni di abitanti, e circa due milioni di edifici si stringono nei 23 distretti centrali dove vivono nove milioni di tokioiti.
La città presenta un ventaglio incredibile di architetture moderne costruite quasi tutte all’inizio del ventesimo secolo. Stili e dimensioni profondamente (e selvaggiamente) diverse si affiancano in una confusione di cartelli pubblicitari, distributori automatici e fili elettrici sospesi.
Talvolta lo choc sonoro e visivo è insopportabile. In particolare, nei quartieri commerciali, le vie contengono talmente tante informazioni visive che l’ambiente sembra indecifrabile. In questa metropoli in costante mutazione, gli edifici sono sempre stati trattati come oggetti usa e getta, facilmente demoliti e rimpiazzati, seguendo la logica semplice e diretta dell’interesse economico.
Perché sprecare un terreno di prim’ordine per costruire un magnifico immobile di nove o -Dio ce ne scampi- tre piani, storicamente e culturalmente importante come l’antico Hotel Imperial di Frank Lloyd Wright, quando si può costruire un grattacielo di venti o trenta piani e vendere tutti quegli uffici e quegli appartamenti a negozi, imprese, ristoranti e inquilini?
Il concetto di conservazione dei beni culturali è quasi sconosciuto in Giappone. Numerosi aspetti della cultura locale -e non solo l’architettura- sono trascurati, persino denigrati dai Giapponesi fino al momento in cui sono scoperti e ammirati all’estero. È soltanto in quell’istante che i locali cominciano a considerare la propria cultura con uno sguardo differente. È accaduto con le stampe, quando il «nipponismo» divenne di moda in Francia, e questo fenomeno si riproduce ogni volta che un artista o un film incontra il successo in Europa o negli Stati Uniti.
Si può dire la stessa cosa per quanto riguarda gli archivi. Le istituzioni pubbliche hanno la cattiva abitudine di sbarazzarsi di ogni oggetto che, secondo il loro limitato punto di vista, non è ritenuto degno di essere conservato. Foto, documenti, oggetti d’arte, tutto è perduto, a meno che una persona in seno a questa istituzione non prenda particolarmente a cuore il dovere di conservare per il bene delle generazioni future.
Nel campo dell’architettura, una delle principali battaglie combattute attualmente oppone gli speculatori immobiliari a coloro che vorrebbero preservare il patrimonio originale. Questi ultimi tentano infatti di salvare un certo numero di edifici importanti. Prendete ad esempio la Nakagin Capsule Tower. Ancora oggi, quest’altissima torre di scatole impilate, dalle finestre rotonde, appare come impressionante. Non piace a tutti, ma – gusti personali a parte – per molti anni, questa creazione di Kurokawa Kishô ha rappresentato uno dei rari progetti della corrente metabolista davvero realizzati.
Tuttavia, se volete ammirarla da vicino dovete sbrigarvi, perché, come molti altri edifici, i suoi giorni sono probabilmente contati. Costruita nel 1972, è stata concepita come una sorta di organismo biologico le cui cellule (appartamenti minuscoli) erano teoricamente flessibili e intercambiabili, poiché potevano essere spostati verso altri siti simili.
Cinquant’anni più tardi la struttura non è invecchiata benissimo. Le unità d’origine avrebbero dovuto essere rimpiazzate venticinque anni fa. Sono invece sempre al loro posto, appese a una struttura centrale tubolare arrugginita.
Attualmente, un’accanita battaglia si svolge tra quelli che vorrebbero salvare la struttura e quelli, compresi diversi proprietari, che vorrebbero abbatterla e sostituirla con un nuovo edificio.
Sfortunatamente, Nakagin è solo un caso fra mille. Più di cento edifici storici rischiano infatti di venire demoliti, secondo DOCOMOMO Giappone, antenna locale dell’organizzazione internazionale che, dal 1988, si batte per la protezione di importanti opere architettoniche.
Il problema principale è che il governo giapponese è tradizionalmente più favorevole agli interessi dei promotori immobiliari. Ad esempio, una nuova legge promulgata nel 2002, ha maggiormente liberalizzato i piani urbanistici.
I promotori, quanto a loro, sembrano essersi liberati di ogni forma di sentimentalismo o nostalgia del passato. Ogni volta che si trovano a dover scegliere tra il restauro di un edifico antico (che implica la sostituzione di tutte le caratteristiche elettriche e meccaniche) e la costruzione di una struttura nuova, finiscono inevitabilmente per scegliere la seconda opzione.
Il triste risultato è che nel corso degli ultimi vent’anni, le distruzioni si sono susseguite. Nel 2007, Mitsui Fudôsan ha demolito il Sanshin Building, un’elegante costruzione risalente agli anni Trenta, celebre per la sua splendida hall d’ingresso dotata di un soffitto decorato e numerosi dettagli raffinati.
Nel 2009 fu il turno dell’Hotel Sofitel Tôkyô. Di fronte al parco di Ueno, questo edificio si era imposto grazie alla sua forma insolita ispirata all’albero della vita e al tempo stesso ai templi buddisti tradizionali.
Persino gli immobili residenziali Dôjunkai sono scomparsi. Costruiti tra il 1924 e il 1934, facilmente riconoscibili grazie ai loro magnifici muri ricoperti d’edera, erano tutti incredibilmente sopravvissuti ai raid aerei, ma non sono scampati all’assalto dei bulldozer e dei promotori. L’ultimo è stato demolito nel 2013, ma il più celebre fra di essi, quello di Aoyama, venne già distrutto dieci anni prima per essere sostituito dall’Omotesandô Hills, una struttura assai banale in cemento e vetro che si estende per 250 metri lungo la Omotesandô avenue.
Se gli edifici Dôjunkai fossero stati costruiti in Europa o negli Stati Uniti, sarebbero probabilmente stati modernizzati e restaurati.
Purtroppo, il promotore Mori sembra aver scelto una soluzione troppo complicata e troppo lunga. Alla fine, solo un minuscolo frammento del progetto Dôjunkai è stato conservato in memoria del passato.
Bisogna notare che questa mancanza di empatia per i monumenti del passato non risparmia nemmeno gli architetti celebri. Frank Lloyd Wright, che abbiamo già ricordato, ha realizzato cinque progetti oltre all’hotel Imperial. Solo due sono sopravvissuti fino ad oggi.
Quanto allo sfortunato hotel, si possono ancora ammirare l’entrata e la parte centrale al Meiji Mura, un museo di architettura vicino a Nagoya. Tornando alla lista delle vittime illustri, si può citare l’hotel Okura, chiuso nel 2015 per restauri. Dal 1962, era considerato come uno degli hotel più eleganti della capitale. Il suo nuovo volto è stato rivelato l’anno scorso: una torre di vetro di 38 piani (di cui 18 occupati da uffici) in cui, a parte negli interni, nulla è stato conservato del fascino e dello stile originale.
Secondo l’architetto tedesco Ulf Meyer, il vero problema risiede nel fatto che Tôkyô sia la sola città al mondo dove un terreno possiede un valore dieci volte superiore rispetto a qualunque cosa ci si possa costruire sopra. Partendo da questo principio, nessuna opera architettonica può pretendere di essere eterna.
Ecco perché gli architetti giapponesi non possono mai aspirare a costruire monumenti duraturi. In fin dei conti, Tôkyô ha le caratteristiche di una città effimera che non cerca mai riferimenti perpetui. È incompleta per natura, e per sempre.
Risulta difficile giudicarla o apprezzarla applicando certi parametri che utilizziamo generalmente quando osserviamo una città.
Pensate a Roma, Parigi, Londra o New York e subito vi verranno in mente certe immagini: luoghi e monumenti che sono riusciti a simbolizzare le città, a contribuire al loro mito. Ora, pensate a Tôkyô.
C’è da scommettere che avrete delle difficoltà a tratteggiarne un’immagine precisa. L’impressione stereotipata che le persone finiscono con l’avere, leggendo articoli e libri, o guardando dei programmi televisivi, è che Tôkyô sia un groviglio di edifici, cartelloni pubblicitari e colori senza ordine né direzione precisa.
Le cartoline turistiche mostrano generalmente uno skyline piuttosto anonimo (Shinjuku West), o un mare di cemento armato con uno strano pilone rosso e bianco in mezzo – la Tôkyô Tower.
Di quale monumento unico Tôkyô può vantarsi? Prendete ad esempio la famosa Tokyo Tower. Immaginate la Tour Eiffel, ma di forma leggermente diversa. La versione giapponese misura 330 metri, ossia trenta metri in più rispetto alla torre francese. Sfortunatamente, è stata dipinta in rosso e bianco (in verità, tecnicamente si tratta di un «arancione internazionale»). L’effetto d’insieme è totalmente differente. I Francesi, fieri, hanno trasformato questo insieme di sbarre di ferro in un simbolo nazionale. I Giapponesi hanno trasformato la stessa quantità di ferro in un pilastro gigante. Più recentemente, la Tôkyô Tower è stata eclissata dal Tôkyô Sky Tree, molto più alto…Uno stuzzicadenti gigantesco! Dimenticatelo…
In fin dei conti, l’elemento architettonico più notevole della capitale giapponese è probabilmente la vasta rete di strade sopraelevate che si snodano attraverso i grattacieli e su lunghe distese di fiumi e canali della capitale prima di immergersi sottoterra e sotto la baia. Questo elemento unico nel paesaggio urbano è in perpetuo cantiere ancora oggi, 60 anni dopo il completamento del primo tratto nel 1962. Concepito in origine per collegare tutti i siti olimpici, è stato rapidamente considerato come un pratico mezzo per risolvere l’ingestibile problema di ingorghi nel centro città.
Visto che abbiamo evocato i fiumi e i canali, ricordiamo che Tôkyô possedeva anticamente numerose vie navigabili lungo le quali gli abitanti lavoravano, concludevano affari e si divertivano.
Purtroppo, oggi, molte di esse sono letteralmente state soppiantate dalle autostrade. Altri corsi d’acqua minori sono stati ancora più sfortunati, poiché interrati o trasformati in canali sotterranei. Quando ci si interessa a Tôkyô, bisogna tener conto dei lati buoni e dei lati sgradevoli, poiché tutto è strettamente legato.
In ogni caso, qualunque opinione abbiate sulla città, non vi è mai permesso di dare nulla per scontato: in questo caos sempre evolutivo si nasconde l’essenza del suo fascino. Sembra che qui le cose possano crescere, svilupparsi, cambiare e morire secondo un ritmo interiore naturale, come un organismo vivente, nel quale la bellezza si trova nelle piccole cose facilmente dimenticate.
La combinazione – qualche volta lo choc – del nuovo e dell’antico e il contributo incessante di nuove influenze culturali straniere, danno alla città un’energia che non si trova in nessun altro luogo. Tôkyô riflette l’effervescenza di una cultura urbana in costante creazione e capace di reinventarsi senza sosta.
Gianni Simone