Sejima Kazuyo e Aldo Cibic, la cui fama oltrepassa le rispettive frontiere, difendono la visione di un’architettura “felice”.
In che modo l’architettura “costruita” dialoga con lo spazio circostante e la natura? È possibile ampliare il concetto di design fino a scoprire nuovi modi per immaginare il futuro e ripensare al significato della felicità? Questi sono i temi principali toccati da Sejima Kazuyo e Aldo Cibic nel corso dell’incontro organizzato il 4 novembre a Tokyo dall’Istituto Italiano di Cultura.
Sejima Kazuyo fa parte dell’elite dell’architettura giapponese contemporanea. Nel 1995 ha fondato insieme a Nishizawa Ryue lo studio SANAA con cui ha progettato il 21st Century Musem di Kanazawa, Dior Omotesando (Tokyo) e il New Museum (New York). Nel 2010 ha diretto la 12esima edizione della Biennale di Architettura di Venezia. È stata insignita, tra gli altri, del premio dell’Istituto di Architettura del Giappone, del Leone d’Oro della Biennale di Venezia e soprattutto del Priztker Prize considerato un vero e proprio Premio Nobel per l’architettura.
Aldo Cibic ha iniziato a lavorare nel 1977 con Ettore Sottsass, diventandone partner nel 1980. L’anno successivo hanno fondato insieme Memphis, un collettivo italiano di architettura e design. Nel 1989 ha aperto a Milano il proprio studio con il quale opera a livello internazionale su progetti che indagano la dimensione urbana, il rapporto dell’uomo con l’ambiente e la collettività.
Fra i vari progetti illustrati durante la conferenza, ha destato particolare interesse l’opera di rivitalizzazione che Sejima sta conducendo a Inujima, una piccola isola nel Mare Interno del Giappone non lontana da Naoshima, a sua volta famosa come “isola d’arte” per i suoi molti musei di arte contemporanea.
Come si è sviluppato il progetto di Inujima?
Sejima: Quest’isola in passato ha raggiunto una popolazione massima di 5000 persone, ma adesso ne sono rimaste solo una trentina. Ci sono due centri “abitati” (per modo di dire) con una grande quantità di case abbandonate che ho pensato di rinnovare e trasformare in diversi modi, cercando naturalmente di mantenere intatto il loro ambiente naturale. Quando il progetto sarà completato, l’intero centro diventerà un vero e proprio museo e la gente potrà passeggiare per le sue stradine e visitare le varie costruzioni che ospitano mostre e installazioni di vario tipo. L’area è piuttosto piccola e può essere visitata a piedi in 30-40 minuti. Fra l’altro, qui le macchine non circolano, ma l’isola è talmente piccola (ha una circonferenza di 3 km) che la si può girare in un’ora.
Ho trovato molte abitazioni in condizioni abbastanza buone e le ho potute utilizzare così com’erano. In altri casi ho conservato la loro base in pietra aggiungendovi altri materiali in parte trovati sul luogo ed in parte portati da fuori. È un lavoro che richiede molto tempo, anche perché ogni casa viene letteralmente smontata per controllare quali parti sono ancora utilizzabili e quali vanno sostituite. Inoltre bisogna ripulire i sistemi di scolo e tutta la zona dalle erbacce.
Cibic: Sono rimasto molto colpito da questo lavoro e lo sento molto vicino perché, proprio alla Biennale del 2010 curata da Sejima, avevo proposto dei progetti di spirito simile. Sarebbe bello poter fare le stesse cose in Italia. È interessante vedere come si possano presentare delle alternative al nostro vivere quotidiano. Da noi il corrispettivo di quest’isoletta potrebbe essere la vita in campagna che da una parte ha il vantaggio di offrire un ambiente sotto certi aspetti più umano, meno stressante e con un costo della vita ridotto ma in cui certi limiti di una volta, come l’isolamento, sono oggi ridotti dalla connessione online.
Sejima-san, lei è riuscita ad applicare con successo in tutto il mondo le sue idee sull’architettura. Pensa che i suoi lavori riflettano in qualche modo la cultura orientale?
Sejima: Quando cominciamo a lavorare a un nuovo progetto non cerchiamo mai di introdurre consciamente riferimenti all’architettura asiatica o giapponese. Tuttavia la relazione di continuità fra interno ed esterno, che è un po’ una costante del nostro lavoro, è sempre stata un elemento importante dell’architettura giapponese. Da noi, per esempio, si considera sempre il fattore climatico (in estate c’è molta umidità) mentre la percezione degli spazi dipende anche dall’ora del giorno, cioè dall’angolo con cui il sole illumina le superfici.
Cibic: Girando per Tokyo in questi giorni mi ha fatto una grande impressione il fatto che questa città è piena di colori. La cultura popolare è molto colorata ma quando si arriva ad un design più raffinato il colore sparisce. Ed infatti anche in Italia, o in Occidente, abbiamo un’immagine più rarefatta del Giappone, più poetica. In questo credo che Sejima sia molto giapponese visto che le piace molto usare il bianco nei suoi lavori. Al contrario ci sono designer come Kuramata, Kita e Umeda che lavorano molto con il colore. Quest’ultimo ha lavorato anche con Sottsass e quindi mi viene da pensare che forse il frequentare l’Italia li abbia influenzati in questo senso.
Sejima: È vero che nel mio lavoro il colore di per sé non compare molto. Da una parte ho progettato molti musei – luoghi in cui di regola il bianco abbonda – e poi una superficie bianca dà molta libertà perchè lascia aperte molte opzioni. In altri casi, come a Inujima, più che applicare il colore io stessa, mi piace che le cose riflettano i colori circostanti. In certi casi ho usato anche degli specchi in modo che l’ambiente circostante riflesso divenisse parte integrante di mostre e installazioni. Oppure mi piace progettare costruzioni i cui muri esterni siano trasparenti, come la Shibaura House a Tokyo. Il vetro a seconda dei casi riflette la luce e permette sia a chi sta fuori di vedere gli interni sia a chi sta dentro di vedere l’ambiente circostante.
Come avrà notato, signor Cibic, questo Istituto di Cultura ha una facciata rosso fuoco che a suo tempo non è stata molto ben accolta e anzi ha sollevato molte polemiche perché non si armonizza con l’ambiente circostante. Memphis è un progetto molto colorato che ha preso idee da diverse culture come quella indiana e messicana. Cosa pensa dell’uso del colore?
Cibic: Non so sinceramente come sia nato in me quest’amore per il colore. Se penso ai colori delle città italiane, per me in qualche modo rappresentano un’idea di vitalità e sensualità più istintiva e se vogliamo più popolare dell’essenzialità giapponese che è invece più rituale. In questi giorni sono stato in diversi uffici qui a Tokyo e come anche in Italia sono sempre posti anonimi. Qualche anno fa, ad esempio, ho fatto la nuova sede della rivista Abitare. Il direttore, Italo Lupi, avrebbe voluto un design super minimalista e senza tanti colori. Questo è piuttosto normale quando si tratta di ambienti di lavoro. Le scuole al confronto sono più colorate perchè ci sono i bambini e forse il mio amore per il colore è dovuto in parte alla mia natura infantile. Ma ci sono anche molti studi che spiegano quali siano gli effetti benefici del colore. Per me il colore è portatore di vita, il che non va confuso con il caos, ma una vita senza colori è una vita meno ricca.