CINEMA : Bulli, pupe, pistole e fantasmi

Mark Schilling spiega perché il Far East Film Festival è l’evento cinematografico più eccitante dell’anno.

Grazie a successi quali Kabukicho Love Hotel di Hiroki Ryuichi, il giovane cinema giapponese è ben rappresentato.
Grazie a successi quali Kabukicho Love Hotel di Hiroki Ryuichi, il giovane cinema giapponese è ben rappresentato.

Dal 1999 il Far East Film Festival (FEFF) di Udine rappresenta una delle poche occasioni che il pubblico italiano ed europeo hanno di scoprire un lato diverso delle cinematografie asiatiche: quello dei cosiddetti film di genere (azione, horror, commedia, fantascienza, ecc.), generalmente snobbati dagli altri festival. Fin dall’inizio il critico e giornalista americano Mark Schilling ha lavorato come consulente per la sezione giapponese condividendo il punto di vista del comitato organizzatore secondo cui non esiste un prodotto alto o basso ma solo film più o meno belli nei quali il pubblico può riconoscersi. Zoom Giappone ha incontrato Schilling in un caffè di Tokyo per parlare della sua lunga collaborazione con il festival della città friulana.

Allora com’è andata la recente visita di Sabrina Baracetti [fondatrice e direttrice artistica del FEFF]?
Mark Schilling: Sabrina è venuta per vedere il Tokyo International Film Festival (TIFF) e il Filmex e in più ne abbiamo approfittato per fare una visita al Kawakita Memorial Film Institute, un’istituzione privata il cui scopo principale è quello di dare una mano ai vari festival del cinema che sono a caccia di pellicole giapponesi. In particolare ci hanno organizzato delle proiezioni e anche degli incontri con alcune case cinematografiche. Quindi fra una cosa e l’altra sono stati giorni molto impegnativi.

Tu collabori al FEFF dalla seconda edizione del 2000. Che cambiamenti hai notato nel festival e, in particolare, nella selezione giapponese in questi 15 anni?
M. S.: Quando abbiamo cominciato era una cosa molto piccola a livello locale. Avevamo un solo teatro a disposizione e nessuno ci conosceva. Credo che ci fossero solo due o tre film giapponesi in cartellone. L’anno scorso in confronto ne abbiamo portati ben 12 anche grazie al fatto che adesso abbiamo due altri locali a disposizione compreso il Visionario, un centro culturale con una sala da 300 posti. La cosa più importante è che il festival ormai gode di un’ottima reputazione sia fra gli appassionati che fra gli addetti ai lavori. Negli ultimi anni il numero di film che proiettiamo non è cresciuto molto – per nostra scelta – ma in compenso il programma è più diversificato e comprende anche documentari e cortometraggi. La nostra filosofia rimane comunque sempre la stessa: presentare in Europa film popolari dell’Asia orientale. C’è chi li chiama film di genere, ed è vero che la maggior parte di essi può essere etichettata in questo modo, ma se trovo un buon film drammatico che secondo me può avere successo a Udine non mi tiro certo indietro.
La nostra programmazione non si limita ai film di recente uscita. Ci piace anche tornare indietro nel tempo e scavare negli archivi alla ricerca di qualche perla del passato ancora inedita fuori dal Giappone. Quando ad esempio ho preparato il programma dei film d’azione della Nikkatsu, ho scoperto che la maggior parte delle persone conoscevano già Suzuki Seijun ma non avevano sentito parlare di nessun altro regista. Quindi per molti è stata un’importante scoperta.

Immagino che mettere insieme la selezione ogni anno, sotto certi aspetti, sia molto stressante, eppure sono già 15 anni che lo fai. Cosa ti piace di questo lavoro?
M. S.: È vero che dobbiamo sempre affrontare un sacco di problemi. Nel 2003, ad esempio, abbiamo mostrato otto opere del genere ero-guro (erotico-grottesco) che il “re del cult” Ishii Teruo aveva girato fra il 1968 e il 1973 e riuscire a trovarli è stato molto difficile – specialmente il suo capolavoro, Horror of the Malformed Men (1969), un film così controverso che anche in Giappone non è disponibile nel formato video. Poi nel 2005 la retrospettiva sul cinema d’azione della Nikkatsu comprendeva ben 15 film di cui però solo uno era provvisto di sottotitoli. Quindi abbiamo dovuto prima ottenere i dialoghi dal distributore per poi tradurli e preparare i sottotitoli in modo che potessero essere sovraimposti al film durante la proiezione. È stato un lavoro enorme e dispendioso, reso possibile solo da una donazione della Japan Foundation. Queste cose richiedono un sacco di tempo e di denaro e non possiamo certo farle tutti gli anni. Un altro problema che incontravamo spesso negli anni passati (e a volte anche adesso) era che molte case cinematografiche giapponesi non capivano il perché volessimo mostrare i loro film all’estero. Secondo loro, cioè, si trattava di opere che il pubblico straniero non avrebbe mai apprezzato. Perciò abbiamo dovuto fare una vera e propria opera di educazione, dimostrando loro che avevano tutto da guadagnare da simili progetti. C’è voluto del tempo ma alla fine li abbiamo convinti che questa era una grande opportunità per fare conoscere i loro film all’estero. Quindi per rispondere alla tua domanda, sono contento quando film vecchi e nuovi raggiungono un pubblico più vasto. Alcuni di essi trovano anche un distributore. La retrospettiva sulla Nikkatsu, per esempio, ha fatto il giro del Nord America per due anni dopo essere passata da Udine e la Criterion Collection ne ha pure comprati alcuni.

Tu hai anche collaborato al Tokyo International Film Festival (TIFF). In passato il TIFF ha subito diverse critiche per una serie di scelte di programma un po’ discutibili. Secondo te che cosa potrebbe imparare dal festival di Udine?
M. S.: È un po’ difficile paragonare questi due festival perché hanno dimensioni e finalità molto diverse. Il TIFF è decisamente migliorato con gli anni anche se gli organizzatori sembrano ancora sacrificare la qualità alla quantità (ci sono troppe sezioni, alcune delle quali sono francamente inutili) per non parlare del fatto che si lasciano sfuggire alcuni eccellenti film giapponesi che vengono invece presentati in altre manifestazioni come a Pusan in Corea. Voglio dire, i Coreani non permetterebbero mai una cosa del genere. Poi naturalmente hanno questa abitudine di presentare come prime assolute dei film stranieri di secondo livello che sono stati rifiutati da tutti gli altri festival (ride). D’altra parte, però, ci sono anche molti aspetti positivi a cominciare dal Japanese Cinema Splash, una sezione che offre l’opportunità di far conoscere registi ancora poco noti che meritano di essere sostenuti e incoraggiati.

Quando sei a Udine hai il tempo di vedere anche film non giapponesi?
M. S.: Sì, riesco sempre a vederne qualcuno.

Naturalmente vista la natura del festival penso che ogni selezione nazionale sia molto varia in termini di storie e contenuti. Trovi che il programma giapponese si distingua in qualche modo dagli altri?
M. S.: Beh ad esempio, se prendi i film coreani, è chiaro che hanno una mentalità più hollywoodiana: spesso le loro storie sono molto facili da seguire, anche un po’ semplicistiche se vogliamo, e per questo piacciono ad un pubblico più vasto, anche internazionale. Gli stessi Italiani hanno dimostrato di apprezzare molto queste storie tanto è vero che l’anno scorso le pellicole coreane hanno vinto i tre premi maggiori. I film giapponesi, al confronto, hanno spesso metodi narrativi diversi, a volte un po’ particolari, e possono essere più introspettivi. C’è anche da dire che il mercato cinematografico coreano è molto più piccolo di quello giapponese e i produttori devono per forza di cose creare prodotti da esportazione. È una semplice questione di sopravvivenza.

Nel 2014 Eien no Zero (The Eternal Zero) ha vinto il primo premio al FEFF. La cosa ti ha sorpreso? E personalmente cosa ne pensi di questo film?
M. S.: Ebberne sì, devo dire che la cosa mi ha sorpreso molto anche perché, come ricorderai, in Giappone questa storia di kamikaze durante la Guerra del Pacifico ha suscitato molte polemiche ed è stata stroncata da una parte del pubblico e della critica. Perciò quando il film è stato proiettato a Udine ero molto preoccupato. E invece ha avuto un incredibile successo. Sicuramente è fatto molto bene, ha degli eccellenti effetti speciali e soprattutto è una storia che parla ai sentimenti. Mi ricordo che alla fine della proiezione piangevano tutti. Credo che a volte per un pubblico straniero sia più facile sentirsi in sintonia con un film proprio perché non è condizionato dai filtri ideologici e dal clima culturale del paese d’origine.

È difficile accogliere ogni volta tutti gli ospiti che vengono dal Giappone?
M. S.: No, non credo proprio. Udine è una bella città, facile da girare e con poca criminalità. Ci sono tante cose da fare e da vedere nei dintorni, e la cucina poi è buonissima. Devo dire che ci prendiamo molta cura dei nostri ospiti: stanno in ottimi hotel e hanno sempre un interprete a disposizione per qualunque cosa. Il programma del festival, poi, non è così faticoso e così possono anche fare qualche giro nei paraggi. Non ho mai sentito uno di loro lamentarsi o dire che si annoiava o che voleva tornare in Giappone. Anzi, di solito ci chiedono «quando posso venire di nuovo?» (ride).

Puoi fare qualche anticipazione su questa edizione? Di che cosa stai andando a caccia questa volta?
M. S.: La retrospettiva di quest’anno sarà dedicata alla fantascienza giapponese e come al solito trovare queste vecchie pellicole della Toho è stata un gran fatica. A volte di un certo film non hanno nemmeno una copia a 35 mm e i formati che ci offrono non sono di una qualità sufficiente per essere proiettati su grande schermo. Perciò credo che questa volta useremo spesso il Visionario che ha uno schermo più piccolo.
Per quanto riguarda il resto, ci sono ancora tante cose da fare. Una volta bastava fare una telefonata per concludere un affare. Adesso invece è tutto molto più complicato. Rispetto a quando abbiamo cominciato ci sono molte più manifestazioni dedicate al cinema asiatico (a Rotterdam, Francoforte, Helsinki, New York, ecc.) il che si traduce in una maggiore competizione per ottenere i titoli migliori. Poi naturalmente i registi più famosi, come Kitano Takeshi, Koreeda Hirokazu o Miike Takashi, scelgono sempre i festival più grandi e prestigiosi come Venezia, Berlino e Cannes (che fra l’altro comincia subito dopo il FEFF). Le cose stanno così e noi le accettiamo. Allo stesso tempo, però, è nostra politica presentare solo anteprime europee – o in certi casi italiane, se proprio non possiamo fare di meglio. Così siamo sempre costretti a fare delle modifiche al nostro programma, a volte anche all’ultimo minuto.

Quando ripensi alla tua lunga collaborazione con il FEFF, c’è qualcosa di cui vai particolarmente fiero?
M. S.: Sono contento perché siamo riusciti a presentare molti attori e registi che meritavano di essere conosciuti fuori dal Giappone. Più in generale abbiamo fatto conoscere una vasta gamma di film asiatici, mostrando al pubblico europeo che le pellicole presentate a Cannes o a Venezia non sono assolutamente rappresentative della scena cinematografica di quei paesi. C’è molto snobismo nel circuito dei festival e certi generi vengono completamente ignorati perché non hanno pretese intellettuali. Eppure ci sono molti lavori che meritano di essere visti. Si tratta solo di cercarli. Noi continuiamo per la nostra strada e credo che dopo tanti anni siamo stati ripagati dei nostri sforzi. Guarda adesso come tutti ci rubano le idee (ride)!

Intervista di Jean Derome

Informazioni pratiche
LA PROSSIMA EDIZIONE del Far East Film Festival si svolgerà dal 22 al 30 aprile 2016.
Per conoscere il programma, consultate il sito www.fareastfilm.com