Furukawa Hideo parla delle sue radici, il nucleare e lo strano rapporto fra uomini e animali.
A cinque anni dalla sua pubblicazione, il romanzo Umatachiyo, Soredemo Hikari wa Muku de (Horses, Horses, in the End the Light Remains Pure) è stato finalmente tradotto in inglese. Zoom Giappone ne ha approfittato per parlarne con il suo autore, Furukawa Hideo.
Quando è nata l’idea per questo libro?
Furukawa Hideo: L’11 marzo 2011 io ero a Kyoto. Stavo facendo delle ricerche per il mio nuovo libro quando ho sentito la notizia del triplice disastro. Non so quanto tempo ho passato davanti alla TV a guardare tutte quelle immagini che si succedevano nella loro tragica ripetitività. La mia famiglia, che vive ancora nella prefettura di Fukushima, fortunatamente stava bene, ma io ho sentito ugualmente la necessità quasi fisica di tornare nella mia regione. Era come se una voce dentro di me continuasse a ripetermi che dovevo andare a vedere con i miei occhi cosa era successo. Così sono tornato subito a casa mia, a Tokyo, e da lì in macchina sono partito per Fukushima. Questa spinta a tornare si è poi velocemente trasformata in un impulso a mettere su carta tutto quello che vedevo e provavo. Questo materiale costituisce la parte documentaristica del mio libro.
Umatachi… è poi uscito a tempo di record: in giugno, cioè dopo solo tre mesi, è stato pubblicato per intero sulla rivista letteraria Shincho e il mese dopo è uscito nelle librerie. Penso che anche in Giappone sia un caso più unico che raro.
F. H.: Sicuramente si tratta di un caso speciale dettato ovviamente dalle circostanze in cui il romanzo è stato scritto. Il libro è stato scritto in buona parte di getto, privilegiando le emozioni che avevo provato a caldo rispetto a un approccio più mediato. La mia casa editrice, poi, ha assecondato questa mia urgenza e ha fatto di tutto per renderlo disponibile il prima possibile.
Umatachi ha una struttura molto particolare che mischia reportage, narrativa e storia militare.
F. H.: Tuttavia non è stata una decisione premeditata, decisa a tavolino. Soprattutto nelle prime fasi, quando sono tornato a Fukushima, la mia unica preoccupazione era quella di registrare a caldo ciò che era successo. Andavo in giro con carta e penna e buttavo giù tutto ciò che vedevo intorno a me – la distruzione, la speranza e la disperazione della gente – senza sapere se e come avrei usato quegli appunti. Era come se non potessi fare a meno di scrivere. Però naturalmente io sono un romanziere, non un giornalista; il mio lavoro e la mia passione sono raccontare storie. È per questo che in un secondo tempo ho deciso di introdurre un elemento di finzione narrativa.
Anche se l’etichetta di “scrittore di Fukushima” ti va stretta, è anche vero che in questi anni hai fatto di tutto affinché la gente non dimenticasse i fatti di cinque anni fa.
F. H.: È una cosa in cui credo molto perché la memoria storica è importante. Credo che nel mio caso abbia anche inciso il fatto che l’11 marzo 2011 mi trovavo a Kyoto, lontano centinaia di kilometri dal luogo della tragedia e relativamente al sicuro. Tutti coloro che quel giorno erano nel Tohoku e hanno vissuto in prima persona quei momenti terribili (o anche a Tokyo, dove la scossa di terremoto è stata molto forte) vogliono solo dimenticare. È una cosa del tutto naturale cercare di lasciarsi alle spalle i brutti ricordi ma per me e per tante altre persone è invece importante conservare il ricordo di quei giorni. Non importa in che modo (la scrittura è solo uno fra molti) ma bisogna evitare che la memoria di Fukushima svanisca nel tempo.
Quello che dici è importante anche perché non era la prima volta che il Tohoku veniva distrutto da uno tsunami. In passato sono state piantate nel terreno delle pietre miliari per indicare fino dove era arrivata l’onda di maremoto ma evidentemente la gente dimentica o preferisce comunque vivere in zone più comode anche se a rischio.
F. H.: Non si tratta solo di comodità: in Giappone il culto degli antenati è ancora molto sentito, soprattutto in provincia, dove la gente vive vicino al cimitero in cui è sepolta tutta la famiglia. Allontanarsi da quei luoghi significherebbe rompere questo legame multi-generazionale con la propria terra e le proprie radici; sarebbe come fare uno sgarbo ai propri antenati. Per certe persone può sembrare strano ma una delle cose che addolora di più le persone che sono state allontanate dalla zona radioattiva di esclusione è che non possono visitare la tomba di famiglia e compiere quei riti annuali che sono parte della tradizione. Ad esempio, la lapide della tomba della mia famiglia è stata danneggiata dal terremoto dell’11 marzo. Una delle prime cose che hanno fatto i miei è stata quella di andarla a riparare. Per molti questo legame con il luogo di origine è molto più forte e importante di qualsiasi considerazione sulla convenienza o la sicurezza.
Torniamo al tuo libro. Umatachi, come dicevamo, comincia come reportage ma poi improvvisamente la narrativa (o forse sarebbe meglio chiamarla meta-fiction) fa irruzione quando uno dei due fratelli protagonisti di Seikazoku [La sacra famiglia, un romanzo del 2008] appare come per incanto sul sedile posteriore della macchina su cui stai viaggiando. Pensi che Umatachi possa essere definito il seguito di quel romanzo?
F. H.: Più che un sequel io parlerei di un’idea ricorrente. Ogni scrittore spesso rivisita gli stessi temi, magari in forme diverse. Nel mio caso particolare il disastro del Tohoku ha innescato una serie di pensieri che mi hanno portato a recuperare certe cose di Seikazoku. Ho raggiunto un punto in cui il semplice reportage non bastava più ad esprimere ciò che provavo e ho dovuto far ricorso agli strumenti della narrativa che mi sono più congeniali. È importante sottolineare che mentre molte persone sono scappate dalla zona disastrata, altre al contrario sono accorse per aiutare, testimoniare o semplicemente vedere con i propri occhi cosa era veramente successo. Quindi sotto certi aspetti i due fratelli di Seikazoku possono essere visti non come personaggi di una storia ma come persone reali; in un certo senso il loro sguardo rappresenta gli occhi di milioni di persone.
Anche in questo romanzo gli animali sono protagonisti. Perché li trovi cosi affascinanti?
F. H.: I cavalli, che sono al centro della storia, così come i cani, i gatti e i bovini, da tempo immemorabile vivono a stretto contatto con l’uomo e dipendono dalle persone per la loro esistenza. È da questa posizione “privilegiata” che li osservano quotidianamente. Lo sguardo di un giapponese sulla storia del proprio paese sarà sempre soggettivo, di parte, perché è parte di essa. Gli animali, al contrario, possono permettersi uno sguardo oggettivo sulle cose. È per questo che li trovo un perfetto medium narrativo.
A Fukushima in particolare gli animali sono un po’ diventati i protagonisti del dopo disastro visto che molti di essi sono stati abbandonati a se stessi.
F. H.: È vero, sono tutti animali domestici e da lavoro che sono tornati al loro originario stato selvatico. Quando sono tornato l’ultima volta a Fukushima, a dicembre, erano addirittura aumentati di numero perché nel frattempo hanno fatto i figli. Molti volontari vanno a dargli da mangiare e fanno di tutto perché non vengano uccisi. La cosa interessante è che adesso ci sono anche un gran numero di uccelli, molti più che in passato. È interessante vedere come gli animali vadano ad occupare tutti gli spazi abbandonati dall’uomo.
Qual è il rapporto di Fukushima con i cavalli?
F. H.: Per secoli questa regione è stata famosa per l’allevamento di importanti razze equine. Durante il periodo Edo (1603-1867), per esempio, contadini e cavalli vivevano sotto lo stesso tetto. Le case erano fatte a “L”: le persone occupavano un lato della casa mentre l’altro era riservato ai cavalli. Erano trattati come i cani e ognuno aveva un nome. Mi ricordo che da bambino anche a casa nostra avevamo una stalla, anche se all’epoca non avevamo più i cavalli. Tutta questa cultura ormai è quasi scomparsa. Soprattutto con la meccanizzazione dell’agricoltura i cavalli non sono più necessari. Anche l’allevamento dei cavalli da corsa si è trasferito in Hokkaido, quindi i pochi che sono rimasti vengono per lo più usati per il turismo.
Tu sei nato a Koriyama. Che ricordi hai della tua città?
F. H.: Quando ero bambino era famosa per gli yakuza (ride). Con gli anni, però è diventata il centro commerciale della prefettura di Fukushima e il secondo conglomerato urbano del Tohoku. Il terremoto naturalmente è stato un grave colpo per l’economia locale ma ormai sembra essersi ripresa. La popolazione è addirittura aumentata a causa della gente che ha dovuto abbandonare le zone più pericolose della prefettura.
In Umatachi hai scritto: “Non ho mai avuto intenzione di rimanere nella mia città. In terza o quarta elementare avevo già preso questa decisione. Non è che odiassi quel posto. Sentivo solo che Koriyama non aveva bisogno di me”. Puoi spiegarmi meglio cosa intendevi dire?
F. H.: È un po’ difficile da spiegare a parole ma uno dei fattori che mi hanno spinto a lasciare Fukushima è stato che la mia è una famiglia di contadini e per tradizione la fattoria viene lasciata al figlio primogenito che si impegna a prendersi cura dei genitori quando sono vecchi. Il secondo, che sarei stato io, è libero di andarsene a cercare fortuna altrove. Quindi fin da bambino sapevo che questo sarebbe stato il mio destino. Fino a 15 anni ho vissuto in campagna ma il liceo era in città ed è stato lì che sono entrato in contatto con un ambiente diverso, ho fatto nuove amicizie e ho cominciato a staccarmi da casa prima di andarmene definitivamente a 18 anni, quando mi sono iscritto all’università a Tokyo.
Come hai trovato casa tua quando sei tornato subito dopo il terremoto?
F. H.: È stata danneggiata dalle scosse sismiche ma non a tal punto da dover essere completamente ricostruita. Per i miei è stata la cosa peggiore perché né l’assicurazione né lo Stato gli hanno danno un solo yen e si sono dovuti sobbarcare tutte le spese di riparazione. In più la mia famiglia è specializzata nella coltivazione dei funghi shiitake che assorbono in modo particolare le sostanze radioattive come il cesio, per cui hanno dovuto distruggere tutto il raccolto. I primi due anni dopo il terremoto sono stati quindi molti duri per loro.
Torni spesso a casa?
F. H.: Adesso circa sei volte l’anno. In realtà torno a Koriyama, dove ho ancora molti amici, ma non mi faccio vedere molto a casa mia (ride). In questi anni ho cercato di contribuire come potevo alla ricostruzione. La gente del Tohoku è molto chiusa e non parla facilmente, anche quando dovrebbe esprimere la propria rabbia e disperazione per quanto successo nel 2011. Così nel 2013 ho creato insieme a degli amici una scuola estiva che chiunque poteva frequentare ed in cui oltre alla letteratura insegnavamo a persone di tutte le età il modo di tradurre in parole i loro sentimenti e le loro emozioni. L’esperimento ha avuto successo e quest’anno verrà ripetuto per la terza e ultima volta.
A giugno il governo ha dichiarato che gli abitanti di Katsurao e Iitate, due paesi non lontani dalla centrale nucleare di Fukushima, potranno finalmente tornare alle loro case perché le radiazioni sono scese a livelli non pericolosi. Cosa ne pensi di questa cosa?
F. H.: Io penso che fin dall’inizio il governo non avrebbe dovuto costringere tutta questa gente ad andarsene. Quello che si chiede al governo è di dare informazioni precise sui livelli di radiazione e l’entità del pericolo a cui va incontro chiunque continui a vivere in certe aree a rischio. Dopo di che ognuno dovrebbe essere completamente libero di scegliere se vuole rimanere o no. Le autorità non possono arrogarsi una simile decisione, che secondo me appartiene essenzialmente alla sfera privata. In fin dei conti c’erano persone che avrebbero preferito morire a casa loro, vicino alle loro cose e alla tomba dei loro antenati piuttosto che morire lentamente in alloggi di fortuna lontani dalla propria comunità. Per me il comportamento del governo è stato una cosa inaccettabile.
Quindi presumo che secondo te il governo giapponese in questi cinque anni non ha fatto abbastanza per la gente di Fukushima.
F. H.: Ovviamente no. Non posso dimenticare il modo in cui ci hanno nascosto la verità e tutti i giri di parole che hanno usato per evitare di ammettere le loro colpe e scaricare le responsabilità sugli altri. C’è gente che è accorsa da tutto il Giappone e perfino dall’estero per aiutare la mia regione. Solo il governo si è attaccato ai cavilli burocratici per non sporcarsi le mani.
Tornando al tuo meta-romanzo, dopo tutta la violenza, morte e distruzione di cui ti fai testimone e narratore in prima persona, mi sembra che il libro si concluda su una nota di speranza.
F. H.: Innanzi tutto mi sembra che il fatto di rivivere insieme questa esperienza possa servire ad evitare gli stessi errori in futuro. E poi sono convinto che un libro debba sempre lasciare il lettore con un messaggio di speranza. Anche le storie più tragiche. Dobbiamo sempre guardare con ottimismo al futuro.Intervista realizzata da J. D.
Riferimenti
Horses, Horses, in the End the Light Remains Pure di Furukawa Hideo, trad. di Doug Slaymaker e Akiko Takenaka, Columbia University Press, 20 $.