Laura Liverani esplora attraverso la fotografia l’identità Ainu nel Giappone contemporaneo.
Gli Ainu, il popolo indigeno del nord del Giappone dalle origini ancora dibattute, sono conosciuti dai più per gli antichi rituali pittoreschi, dal sacrificio dell’orso, alle labbra tatuate delle donne. Per anni vittime della politica di assimilazione linguistica e culturale del governo giapponese, nel 2008 sono stati ufficialmente riconosciuti come una popolazione indigena del Giappone. Negli ultimi quattro anni la fotografa e docente universitaria Laura Liverani ha sviluppato un progetto di documentazione della cultura e dello stile di vita di una comunità Ainu dell’Hokkaido, interrogandosi sul senso di identità nativa nella società giapponese contemporanea. Attraverso la pratica del ritratto fotografico, l’artista ha esplorato il senso di appartenenza degli Ainu nel loro doppio percorso di preservazione e reinvenzione della propria cultura e nella rivendicazione dei propri diritti.
Dal 3 al 18 marzo l’Istituto Italiano di Cultura di Tokyo ha allestito una mostra fotografica dedicata al progetto di Liverani, dal titolo “Ainu Nenoan Ainu”, che nel 2015 ha vinto il premio Voglino come miglior portfolio. Le persone ritratte da Liverani sono nate Ainu o lo sono diventate per scelta, venendo adottate dal villaggio e abbracciandone le tradizioni.
Zoom Giappone ha incontrato la fotografa in occasione della mostra.
Come sei capitata in Giappone?
Laura Liverani: Circa dieci anni fa andavo spesso in Cina per fare dei servici fotografici editoriali. Nel 2007 mi trovavo a Shanghai e ho pensato di fare visita a tutti gli amici che avevo sparsi per il Giappone, dall’Hokkaido fino giù a Fukuoka. Quella è stata la mia prima visita. Da allora quasi ogni anno torno per almeno tre mesi. Ogni volta mi dico che voglio smettere per dedicarmi ad altri paesi e invece c’è sempre qualcosa che mi fa tornare.
La mostra organizzata dall’Istituto di Cultura è dedicata al progetto Ainu Nenoan Ainu al quale stai lavorando dal 2012. Di cosa si tratta?
L. L.: Quando sono venuta in Giappone nel 2009 ho letto su una rivista locale un servizio dedicato ad alcuni gruppi Ainu impegnati in diverse forme di attivismo. C’era ad esempio una band che si chiamava Ainu Rebels (ormai sciolta) che proponeva nuovi contenuti musicali nel processo generale di rivitalizzazione della cultura. Fino ad allora la mia conoscenza della cultura Ainu si era fermata ai libri di Fosco Maraini, ma nel 2009 ho avuto l’occasione di conoscere questi gruppi di giovani basati a Tokyo e da lì è nata l’idea di un progetto fotografico. All’inizio, per motivi logistici, ha stentato a decollare. Poi nel 2012 ho incontrato due persone (l’islandese Valy Thorsteindottir e il giapponese Neo Sora) e insieme, nel 2014, abbiamo formato una sorta di punk band del film-making (nel senso che non avevamo nessuna esperienza precedente), e abbiamo cominciato a raccogliere storie e a fare interviste, sviluppando un progetto di video-documentario che ci desse la possibilità di approfondire ulteriormente questi temi.
Quando siete stati per la prima volta in Hokkaido?
L. L.: Nel 2014 siamo stati a Nibutani (un piccolo villaggio di circa 400 abitanti nel sud dell’Hokkaido, a circa un paio d’ora di macchina da Sapporo) per un primo sopralluogo di una settimana. Quello è stato anche il punto di svolta del progetto, perché ci siamo veramente trovati a contatto con una realtà diversa: non più l’ambiente dispersivo di Tokyo ma un villaggio abitato per la maggior parte dagli Ainu nel quale l’eredità culturale nativa aveva plasmato tutto il paese, comprese le famiglie che non erano di origine Ainu e i cui figli imparavano la loro lingua e le loro tradizioni.
Si tratta quindi di un posto piuttosto isolato.
L. L.: In effetti sembra un po’ uno di quei paesi americani di frontiera in cui tutti si conoscono fra di loro e tu ti senti veramente un estraneo, tanto è vero che durante il nostro primo soggiorno ci ha ricordato Twin Peaks! C’era solo un drive-in caffè, il ristorante Lunch Bee House che spesso era chiuso e una rider house ovvero uno spazio gratuito per i motociclisti che visitavano la zona. Anni fa un turista di Osaka che viaggiava in moto si è fermato in questo posto, ha conosciuto la figlia della signora che gestiva la rider house e ha messo radici a Nibutani diventando uno dei maggiori esperti della lingua Ainu. Durante i miei soggiorni ho sentito molte di queste storie affascinanti.
Avrai incontrato molte persone interessanti.
L. L.: C’è ad esempio una sciamana, la signora Ashirirera (“Nuovo Vento” in Ainu), che ha fondato una comune nella quale si pratica uno stile di vita il più fedele possibile alla tradizione Ainu (ad esempio praticano la raccolta delle erbe selvatiche di montagna). Questa signora non solo si occupa di attivismo ma negli anni ha adottato più di 50 bambini. Chiunque voglia far parte di questa comunità (anche solo temporaneamente, come nel nostro caso) viene in un certo senso “adottato”. Quindi esiste questa grande “famiglia” molto variegata che vive sotto lo stesso tetto e i cui membri contribuiscono alla vita comunitaria secondo la tradizione Ainu.
Com’è il rapporto fra gli Ainu e gli altri giapponesi?
L. L.: La popolazione di Nibutani è per il 70% di etnia Ainu. Gli altri sono giapponesi che sono stati assimilati nel villaggio e ne hanno abbracciato i valori e le tradizioni. C’è per esempio il caso affascinante di una giovane coppia che negli anni ’70, seguendo uno spirito un po’ hippy, si è stabilita a Nibutani. Sono diventati artigiani Ainu. Hanno un negozio nel paese e organizzano dei workshop in tutto il Giappone insegnando l’arte Ainu dell’intaglio.