Incontro : Uno sport in piena evoluzione

Nel numero di novembre, Rugby Magazine si interessava all’apertura della Top League.

Nel 2016, Jones ha lasciato il Giappone per fare l’allenatore in Inghilterra. È stato sostituito da Jamie Joseph, nato in Nuova Zelanda. Che cosa lo differenzia da Jones nell’approccio verso la squadra nazionale?
T. K. : Jones era originario di un Paese, l’Australia, dove il talento puro nel rugby è inferiore a quello della Nuova Zelanda. Doveva dunque proporre agli altri allenatori australiani diverse tattiche e diversi metodi di allenamento per diminuire lo scarto di livello coi rivali. Joseph al contrario, sostiene che il Giappone debba lavorare sulla taglia e sulla forza fisica dei giocatori per diventare una squadra di prestigio mondiale.
A causa di questo approccio diverso, la maniera di giocare nell’arcipelago è cambiata. Nel passato, la rapidità era la nostra arma migliore. Ora, al contrario, i nostri giocatori sono più grandi, più forti, più tarchiati, quindi meno veloci di prima. Nel passato dovevamo trovare sistemi originali, insoliti per vincere, oggi abbiamo un approccio più classico.

Pensa che la cultura del rugby in Giappone sia diversa da quella degli altri paesi?
T. K. : Come sapete, la società giapponese mette sempre l’accento sul lavoro di squadra: pensiamo che insieme possiamo realizzare imprese impossibili da compiere soli. Siamo ugualmente molto seri e diligenti in tutto ciò che facciamo. E nutriamo questa mentalità che non ci permette di lasciare la presa, mai. Di conseguenza, i giocatori vanno avanti fino al limite. Continuano a correre fino ad essere esausti. Ciò che è curioso a proposito del Giappone, è che continuiamo a utilizzare un’espressione inglese obsoleta, “no side”, per evocare la fine della partita, mentre l’espressione usata nel resto del mondo è “full time”. Per molti giapponesi la nostra espressione esprime meglio il momento in cui le due squadre si incontrano e fraternizzano al termine della partita.

Keith Davies è un allenatore con molta esperienza, che lavora in Giappone da circa 30 anni nell’ambito liceale, nelle università e nelle imprese. Critica sovente il rugby giapponese in ambito universitario per lo spreco di energie e l’assenza di risultati. Si trova d’accordo con lui?
T. K. : Le cose non sono così negative come le descrive, ma in fondo ha ragione. Per esempio in passato, i professori di educazione fisica e gli allenatori giapponesi avevano tendenza a formare tutti i giocatori inseguendo lo stesso modello. Tutti venivano spinti a passare o a colpire il pallone allo stesso modo, senza considerare le caratteristiche peculiari di ciascuno.
Le cose sono cambiate sotto questo aspetto, ma sarebbe comunque auspicabile chiedere più originalità nei metodi. Un altro problema è che i migliori club universitari contano dai 100 ai 150 giocatori. Se considerate che 15 ragazzi giocano a rugby, numerosi studenti non giocano sufficientemente durante i loro primi due anni, e in certi casi, mai. Molti potenziali giocatori finiscono cosi per abbandonare il rugby al termine degli studi. Inoltre, anche fra i talenti più promettenti, ci sono giovani che non vedono un avvenire particolarmente luminoso nel rugby e abbandonano il gioco per specializzarsi in medicina o recarsi presso un’altra università con un migliore dossier scolastico. C’è da dire che le scuole secondarie offrono molte poche possibilità di giocare. A questo livello infatti, tutti i tornei sono giocati secondo il sistema di eliminazione diretta: quando si perde una partita, si è fuori. Dovremmo probabilmente concepire un sistema di campionato per dare a ogni scuola più possibilità di giocare. In ogni caso, dovremmo assicurarci di non perdere gli sportivi migliori.

Attualmente, sui 30 giocatori della squadra nazionale, circa un terzo fra di loro è nato all’estero, a cominciare dal capitano Michael Leitch. Nel passato, il Giappone è stato ampiamente criticato per questo, anche se diversi altri paesi (Samoa, Stati uniti, Italia, Australia, Nuova Zelanda, ecc.) fanno esattamente la stessa cosa. Cosa ne pensa?
T. K. : Ormai ci ho fatto l’abitudine (ride). È un segno dell’evoluzione della nostra epoca, suppongo. Per essere franchi, capisco queste critiche. È qualcosa che mette i Giapponesi in una posizione piuttosto scomoda. Nello stesso tempo, molti fra questi sportivi nati all’estero si sono completamente adattati alla cultura giapponese, assimilandola completamente. Prendete ad esempio il capitano Leitch. Agisce come un giapponese e parla la lingua molto meglio di numerosi locali. In fin dei conti, l’importante è che tutti siano in grado di giocare uniti in una squadra compatta per rappresentare al meglio il Giappone.

Quali sono le chance per il Giappone nella prossima Coppa del Mondo 2019?
T. K. : Nel gruppo del Giappone vi sono anche l’Irlanda, la Scozia, le Samoa e la Russia. Tutti danno per scontato che batteremo le Samoa e la Russia. Tuttavia, visto che solo le due migliori squadre potranno accedere ai quarti di finale, dobbiamo trovare un modo per battere l’Irlanda o la Scozia. L’allenatore Joseph ha recentemente dichiarato che il Giappone è sulla buona strada per affrontare con successo almeno la Scozia, e sono d’accordo con lui.
Dopotutto, i risultati dei nostri club e della nostra squadra nazionale sono costantemente migliorati e, naturalmente, giocheremo davanti ai nostri supporter. Suppongo che in molti saranno delusi se non riusciamo a raggiungere i quarti di finale.

Intervista a cura di Gianni Simone