A Akitsu, città della prefettura di Hiroshima, reputata per la competenza delle sue “Hiroshima tôji”, abbiamo incontrato Imada Miho, una delle prime donne tôji, dell’azienda famigliare Imada Shuzô Honten, fondata nel 1868.
La fabbrica è situata nei pressi del Mare Interiore, un mare calmo e ricco di pesce. “Si dice che il paesaggio ricordi quello della Sicilia” afferma: un clima temperato, delle colline dolci che sfiorano le rive, molti aranci e limoni.
Imada Miho fa parte della generazione dei kuramoto tôji. Tradizionalmente, il kuramoto, padrone della fabbrica di sakè, non si occupava della produzione, ma si concentrava sulla gestione dell’azienda. Della produzione si occupava il tôji. Da una ventina d’anni invece, soprattutto nelle piccole e medie unità artigianali, i kuramoto si mettono a produrre sakè, sia per far fronte alla crisi del settore cominciata negli anni Novanta, crisi che non permetteva più le nuove assunzioni, sia per rinnovare il settore, spinti dalla voglia di creare dei sakè liberi da certi cliché.
Questa generazione sovente arriva da una riconversione professionale per poter riprendere la fabbrica di famiglia, oppure giunge nel settore per passione. Imada Miho non fa eccezione. Agli inizi, l’idea di rientrare nella sua regione natale per succedere alla testa della società famigliare non la tentava affatto. Nel periodo della bolla economica degli anni Ottanta, con un diploma universitario in tasca, per dieci anni lavora nel mondo della cultura e si occupa della produzione di spettacoli di teatro nô. Il gruppo che promuoveva la creazione di nuove performance teatrali riceveva all’epoca un importante sostegno finanziario da parte dei mecenati giapponesi. Miho si è recata al festival di Avignone per presentare le creazioni di Teshigawara, portando con sé tutta la troupe di attori…Ma agli inizi del decennio successivo, la crisi è arrivata e Miho si ritrova senza lavoro, mentre la fabbrica di sakè famigliare rischia il fallimento.
Lei è la più grande dei cinque fratelli e sorelle, e nessuno di questi vuole riprendere l’affare di famiglia. Decide quindi di rientrare. Oggi, Miho lavora nel sakè da venticinque anni circa e il suo arrivo ha rappresentato una ventata di novità per la sua impresa. Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, non ha conosciuto situazioni di “dominazione maschile”. “Il tôji che ha lavorato a lungo nella nostra fabbrica mi ha accolto a braccia aperte e mi ha insegnato moltissime cose. Gli altri tôji della regione si sono dimostrati ugualmente di mentalità aperta” ricorda l’imprenditrice. E assicura che quest’apertura mentale caratterizza gli “Hiroshima tôji”.
“La nostra regione è reputata per la sua acqua estremamente dolce. L’acqua poco mineralizzata non era adatta alla fabbricazione del sakè. È molto difficile procedere a una fermentazione senza rischi con un’acqua di questa qualità. Di fronte a questa situazione sfavorevole per la fabbricazione del sakè, gli Hiroshima tôji, si sono scambiati informazioni e savoir faire per riuscire, insieme, a migliorare la qualità del sakè regionale.
Considerando questa difficoltà come una chance, hanno inventato il metodo ginno, una fermentazione lunga e a bassa temperatura, che fa emergere un aroma nobile grazie al quale la nomea degli Hiroshima tôji si è diffusa. Questi ultimi riuscirono ad essere riconosciuti come professionisti altamente qualificati e, sollecitati in tutto il Paese, partivano a lavorare in altre contrade. Questo può spiegare perché ad esempio, nel XIX secolo, Taketsuru Masataka, il figlio di un fabbricante di sakè di Hiroshima, è partito in Scozia per imparare la fabbricazione del whisky. Abbiamo questa mentalità di viaggiatori, questa sete di imparare”, aggiunge.
Conclude poi dicendo che, senza dubbio, questo spirito ha permesso la presenza delle donne nella fabbricazione del sakè.