Cosa significa?
Y. Y.: Ho incontrato mia moglie in Inghilterra, ma quando sono tornato in Giappone, ci siamo separati. Poi mi sono reso conto che era lei la persona con la quale avevo più cose in comune: la sola persona che poteva comprendere la mia passata esperienza di vita. Quando ho cominciato a frequentare ragazze in Giappone, all’inizio giocavo la carta “internazionale” a mio vantaggio. Dopo un po’, la cosa mi annoiava. Tutte le donne che incontravo mi dicevano: “Wow, hai passato undici anni in Inghilterra, incredibile!” . Solo colei che è diventata mia moglie sapeva cosa significava veramente vivere all’estero e potevo permettermi di essere me stesso solo con lei.
Dopo tutti questi anni all’estero, direbbe che vivere in Giappone sarebbe stato più complicato?
Y. Y.: In Occidente, è previsto che tutti siano degli individui liberi. Certo, esistono diverse sfumature quando si parla di individualismo – gli americani e gli inglesi sono molti diversi al riguardo – ma dovete tuttavia comportarvi in quanto individuo, mentre in Giappone, dovete essere costantemente coscienti del contesto sociale e dell’ambiente al quale appartenete.
Avendo evitato dieci importanti anni di formazione in Giappone, mi mancava la capacità di giudizio su questo genere di cose. Non dico che il sistema occidentale sia migliore, si tratta di due sistemi sociali diversi ed è complicato passare dall’uno all’altro.
Ho sentito dire che la società giapponese e quella britannica sono assai simili. Cosa ne pensa?
Y. Y.: In linea di massima, sì. In effetti, gli abitanti di questi due Paesi passano molte ore a parlare del tempo che fa e fanno sempre attenzione a non ferire i sentimenti degli altri. Fanno parte di comunità molto unite dove il controllo degli uni sugli altri è decisamente importante. Allo stesso tempo, però, trovo che in Inghilterra la classe sociale e la gerarchia giochino un ruolo più importante rispetto a quanto succede in Giappone, sebbene le persone godano di più libertà per definirsi in seno al loro ambiente. Nell’arcipelago la pressione da parte della propria comunità è più forte. Dal momento in cui fate parte di un gruppo definito -che si tratti della vostra scuola, del vostro ufficio o di un club – dovete rispettare le regole e far passare gli interessi collettivi davanti ai vostri. Ci sono dunque delle similitudini e delle differenze fra i due Paesi.
L’importanza che entrambi questi Paesi accordano alla lingua è un elemento che li accomuna?
Y. Y.: Direi di sì. Il giapponese e l’inglese britannico sono lingue molto discriminanti. Potete rilevare molte cose dalla maniera in cui le persone parlano: la loro origine, il loro statuto sociale, ecc. In Giappone in particolare, esiste un pregiudizio infelice contro le persone che non parlano con l’accento classico. Sono addirittura disprezzati poiché vengono percepiti come non raffinati. Persino mio figlio ha vissuto questa discriminazione. Essendo cresciuto all’estero, quando siamo tornati, parlava con un accento straniero. Questo problema si riflette ugualmente nell’ossessione dei giapponesi di voler parlare l’inglese come la regina, con un accento perfetto. Ma questo non ha senso quando non si è capaci di mettere insieme due frasi!
Nel suo libro lei descrive la strana sensazione avvertita durante una passeggiata in una via affollata di Tôkyô, circondato unicamente da volti…giapponesi. Riferisce addirittura di essere stato assalito da un senso di claustrofobia. Ho trovato la cosa interessante, soprattutto se detta da un giapponese…
Y. Y.: Per farla breve, è come se mi fossi trovato dall’altro lato di uno specchio. Sono sempre meravigliato dalla mancanza di diversità in Giappone. Potete forse avvertire la stessa sensazione quando viaggiate in Cina, ma per me la Cina è un Paese straniero e la stranezza di certi aspetti della società fa parte delle aspettative, delle cose previste e messe in conto in un luogo poco conosciuto. Il Giappone però, è il mio Paese, e nonostante ciò, nutro sempre una strana sensazione quando attraverso il grande incrocio di Shibuya circondato da persone che si somigliano e che portano spesso vestiti simili. Dovete fare uno sforzo per accorgervi della diversità in tutta questa omogeneità.
Pensa che il Giappone (almeno nelle grandi città) si trasformerà in un melting pot simile a quello che avete conosciuto in altri Paesi?
Y. Y.: Posso solo sperarlo. Certo, il cambiamento sarà lento e progressivo, e ciò è un bene. Non voglio che il Giappone ripeta l’errore commesso dal Regno Unito negli anni Cinquanta quando, per aumentare la disponibilità di manodopera, hanno attirato un numero considerevole di migranti provenienti dalle isole caraibiche senza prepararsi alle sfide sociali che questa immigrazione implicava. Le conseguenze di questa politica si fanno ancora sentire. Spero che noi gestiremo meglio la questione migratoria ma non mi preoccupo più di tanto del fatto che la cultura giapponese si diluisca con altre culture, quanto della dissoluzione della cultura degli immigrati. Dopotutto, bisogna cambiare per restare se stessi, come diceva un famoso scrittore italiano. Speriamo che sportivi come la tennista Naomi Osaka (di madre giapponese e padre afroamericano) aiuteranno le persone a capire che il colore della pelle non è così importante e che il fatto di essere giapponese non significa che dobbiamo essere tutti identici.
È interessante che abbia citato proprio Naomi Osaka poiché quando uno sportivo di aspetto non giapponese si distingue, è immediatamente ben accettato e celebrato, ma quando Ariana Miyamoto, il cui padre è afro-americano, ha vinto il concorso di Miss Universo Giappone nel 2015, molte voci si sono sollevate per dire che non rappresentava la tipica bellezza giapponese.
Y. Y.: evidentemente è impossibile procedere a un’integrazione indolore. Dobbiamo adattarci alle difficoltà di crescita di questo processo. A mio avviso, il Giappone inteso come comunità ha tendenza ad essere piuttosto compassionevole. Spero quindi che la benevolenza sia più forte delle discriminazioni e delle tendenze xenofobe proprie a una minoranza. Come ho detto, ho vissuto altrove, in altri Paesi e ho constatato il dolore e l’odio. È necessario compiere tutto ciò che possiamo per evitare questi problemi. In realtà, le cose stanno già cambiando.
Il suo libro spiega molto bene la cultura e la società giapponese in termini generali. C’è qualcosa in particolare che definisce la cultura giapponese?
Y. Y.: Ogni Paese ha uno slogan che dovrebbe simbolizzare il suo carattere, ma questo slogan finisce curiosamente quasi sempre per mettere in evidenza un difetto fondamentale della società di quella nazione. La frase emblematica per la Francia, ad esempio, è “Liberté, égalité, fraternité”, tuttavia lo Stato in questione sembra soffrire di una grande mancanza di queste caratteristiche. La Dichiarazione d’Indipendenza americana afferma: “Crediamo nelle verità seguenti: tutti gli uomini sono nati uguali”, ma in realtà, la società americana è caratterizzata da importanti diseguaglianze. Per quanto riguarda il Giappone, la nostra prima Costituzione sarebbe stata scritta dal principe Shotoku nel VII° secolo. Il suo primo articolo recitava: “Dobbiamo rispettare l’armonia”, e si riferiva naturalmente al grande numero di conflitti in atto all’epoca. L’armonia sociale è in effetti considerata come una delle caratteristiche peculiari del Giappone ed è una realtà, almeno in parte. Ma nessuno sa davvero cosa è la cultura giapponese, poiché l’evoluzione è continua. Il Paese che ho scoperto al mio rientro, sette anni fa, era davvero diverso dal Giappone in cui sono cresciuto.