Fondato nel 2000, il piccolo birrificio Baird Beer è riuscito a diffondere la sua produzione di qualità in Giappone e all’estero.
La penisola di Izu, a sud di Tôkyô, è conosciuta per le sue spiagge, le sue sorgenti calde e le sue bellezze naturali. Dal 2014, però, attira un nuovo tipo di visitatori: gli amanti della birra. Il birrificio Baird Beer ha infatti stabilito la sua sede a Shuzenji, una celebre stazione termale circondata da colline verdeggianti nella regione centrale della penisola. Oltre agli uffici e all’unità di produzione, la sede della birreria di Shuzenji comprende grandi giardini, di cui uno ricolmo di frutta, verdura e soprattutto luppoli, tutti coltivati e raccolti dagli stessi impiegati. Gli amanti della birra non sembrano poi cosi tanto interessati al panorama, ma si dirigono direttamente verso la sala al terzo piano, dove dodici birre Baird sono servite tutto l’anno, oltre ad una selezione di tre o quattro birre stagionali, una gamma estremamente varia. Shuzenji inoltre è solo uno dei nove bar (di cui uno a Los Angeles) che questa società gestisce direttamente o tramite i soci.
Visitando la fabbrica si scopre un luogo dove l’etica artigianale del micro-birrificio si sposa con la tecnologia più avanzata, allo scopo di rendere la produzione più rapida ed efficiente. Il mulino originario ad esempio, poteva macinare due kili di malto in dieci minuti, mentre la macchina utilizzata oggi ne può macinare ben dodici in un solo minuto. Il birrificio dispone di tre sistemi di fermentazione (rispettivamente di 60, 10 e 2.5 hl). Il più grande è semi-automatico, per cui serve qualcuno che carichi il malto in fondo alla macchina. Il luppolo fresco viene invece conservato in un’ altra zona. In molte birrerie giapponesi infatti, il luppolo viene fatto essiccare e poi compattato in granuli. Il problema di tale procedimento però è che il luppolo perde parte delle sue caratteristiche, nonostante Baird utilizzi esclusivamente luppoli freschi.
Il luppolo viene lavorato in un ingegnoso macchinario che sembra un gigante colino da tè e permette ai birrai di aggiungere diversi aromi, come ad esempio delle arance per la loro Carpenter Mikan Ale. La fabbrica dove la birra viene imbottigliata è anch’essa semi-automatica; le bottiglie sono caricate a mano, ma da lì pulizia, etichettatura, riempimento e incapsulamento avvengono automaticamente. Grazie alla possibilità di svolgere tutte queste operazioni in meno di un minuto, Baird Beer è in grado di imbottigliare più di cento birre al minuto.
Fondato nel 2000 dall’americano Bryan Baird e sua moglie Sayuri, questo micro-birrificio è il tipico esempio del successo di un’impresa in partenza modesta che è riuscita a sfondare sul mercato (almeno nel suo settore). Al momento della sua creazione Baird Beer era il più piccolo birrificio del paese, si poteva infatti quasi parlare di un “micro-birrificio”, ma è progressivamente cresciuto, al punto di contare oggi più di cento impiegati a tempo pieno o part-time e di essere il più noto tra i piccoli birrifici del Giappone.
Tuttavia la partenza non non è stata delle più semplici. “Quando sono arrivato in Giappone dopo aver terminato i miei studi negli Stati Uniti, la birra artigianale, detta anche jibiru (birra locale) all’epoca, cominciava a suscitare un grande interesse”, spiega Baird. “Il governo aveva appena liberalizzato il settore della birra e piccoli birrifici cominciavano a diffondersi ovunque. Benché io non avessi alcuna esperienza in quel campo, ero sempre stato attratto dalla birra artigianale e ho deciso di lanciarmi”.
Nel 1997 Bryan ha infatti lasciato il suo lavoro a Tôkyô e si è iscritto in una scuola negli Stati Uniti, dove ha seguito un programma intensivo di undici settimane di scienza e ingegneria della produzione della birra. “Una volta tornato in Giappone ho capito che avevo piuttosto bisogno di esperienza sul campo, allora ho costruito un piccolo sistema di produzione della birra a partire dalle botti usate, l’ho installato nella nostra veranda e ho cominciato a produrre in casa. Con questo sistema abbiamo lanciato il nostro primo pub-birreria. Era così piccolo (una produzione di appena 30 litri) che dovevo produrre in continuazione, cosa che mi ha permesso di acquistare una grande esperienza in breve tempo”.
Però, mentre la coppia Baird apriva il suo primo birrificio a Numazu, nella prefettura di Shizuoka, la fortuna aveva già cambiato il suo corso e l’interesse iniziale per la jibîru aveva ceduto il posto ad un atteggiamento generalmente negativo verso un prodotto che nella maggior parte dei casi non era di alta qualità. “Il nostro primo grande problema è stato superare quell’immagine negativa che il settore aveva attirato su di sé nei primi anni. L’altra grande sfida era mettere sul mercato un tipo di birra mai visto prima in Giappone, soprattutto perché i giapponesi vivono in una società tendenzialmente conservatrice e relativamente conformista, al punto che è difficile andare controcorrente. E’ vero anche che i giapponesi sono molto curiosi nei confronti del cibo, ma, per ciò che riguarda la birra, esiste un’idea prestabilita per cui questa bevanda equivale ad una Pilsner leggera. I giapponesi hanno imparato a produrre la birra grazie ai tedeschi e per circa un secolo la Pilsner è stata l’unica nel Paese. Quindi, produrre qualcosa di più particolare, ad esempio delle birre ispirate alla tradizione artigianale inglese, belga o americana, significa procedere contro un muro”, racconta Bryan.
Bard è uno dei pochi in Giappone ad utilizzare la fermentazione secondaria, processo che consiste nell’aggiungere alle bottiglie e alle botti delle fonti alimentari supplementari per la lievitazione attiva della birra non pastorizzata. “Il lievito si nutre di zuccheri e rilascia dei gas, creando così una carbonatazione naturale e dolce”, ci spiega.
Bryan e Sayuri hanno aperto la loro prima sala di degustazione in una città di pescatori dove i clienti volevano soltanto Pilsner ghiacciata. Hanno capito in fretta che per riuscire nel loro intento avrebbero dovuto partire da zero. “Purtroppo non basta proporre un buon prodotto. L’altro fattore che influisce sulle vendite di prodotti nuovi, come la birra artigianale in Giappone, è l’educazione graduale dei consumatori. Più capiscono ciò che uno propone e perché, più sono aperti a nuove esperienze. Questo cambio richiede tempo e perseveranza, ecco perché abbiamo cominciato come pub-birrificio. All’inizio, da un punto di vista economico, avevamo una capacità produttiva così bassa che la vendita di birra all’ingrosso non conveniva, dal momento che volevamo conservare tutto il profitto dato dal dettaglio. Ma soprattutto eravamo determinati a produrre una birra molto saporita e particolare e sapevamo che gli altri bar e pub non avrebbero acquistato la nostra produzione, in quanto difficile da rivendere”, conferma Baird.
Nel 2003 l’impresa è passata ad un sistema a 250 litri e ha cominciato ad imbottigliare birre destinate alla vendita per incrementare le entrate. Un cliente ha poi presentato la coppia a Nishida Eiko, grafico che avrebbe successivamente creato l’illustrazione che decora le bottiglie. L’impresa ha continuato a svilupparsi passando ad un sistema di fermentazione a lotti di 1000 litri nel 2006 ed aprendo, due anni più tardi, la sua prima sede a Tôkyô. Lo stesso anno Baird ha anche cominciato ad esportare la sua birra, inizialmente verso l’America, poi in molti altri paesi.
Infine, dopo dieci anni di attività, il birrificio ha cominciato ad ingrandirsi e a raggiungere un certo livello di stabilità economica. Nel 2010 gli sforzi di Bryan e Sayuri sono stati riconosciuti a livello internazionale, con ben tre medaglie d’oro in occasione della Coppa del Mondo della birra, evento che si svolge ogni anno.
Nonostante l’evoluzione dei processi di fermentazione, le birre prodotte sono rimaste in gran parte fedeli alle loro ricette originali, essendo lo stesso Bryan a conservarne il controllo creativo. “Per me ogni birra che fabbrichiamo racconta una storia. Alcune ricordano degli avvenimenti storici, come la Kurofune (vascello nero), che simboleggia l’arrivo della flotta americana del commodoro Perry nel diciannovesimo secolo. Mio padre insegnava storia e mi ha trasmesso l’amore per questa materia. L’origine delle altre birre invece viene dalla storia della mia famiglia o da esperienze personali. La Kabocha (zucca) Country Girl ad esempio, è dedicata a mia madre, cresciuta in campagna coltivando zucche”, ci racconta.
La gamma delle Baird Beer mostra il suo approccio non convenzionale alla birra. La Wabi-Sabi Japan Pale Ale, per citarne una, aromatizzata al wasabi e al tè verde, è un esempio emblematico della filosofia di Bryan. “Se penso che il sapore vada bene con la birra e che possa essere prodotta con equilibrio di gusti penso subito di farcene qualcosa”, rivela. La sua Asian Beauty Biwa Ale e la Shizuoka Summer Mikan (rispettivamente a base di albicocche e arance giapponesi) riflettono questo pensiero. “Tutte le mie birre sono fatte in modo che non domini un sapore particolare, ma ci sia un certo equilibrio. Quando ho finito i miei studi in materia nel 1997, i produttori di birra americani detestavano le birre fruttate, considerate esclusivamente come un modo di attirare nuovi clienti; si trattava semplicemente di aggiungere dell’aroma al lampone ad una birra. Provenendo da questa scuola, la mia filosofia consiste nel minimizzare le trasformazioni quanto a malto e orzo, anche se ciò non significa non poter aggiungere altri ingredienti, anche frutta, purché naturali, freschi, di stagione e soggetti al processo di fermentazione. Il risultato finale è una birra dove gli ingredienti in più non fanno altro che aggiungere un sapore molto sottile. L’ultima cosa che vorrei è che i miei prodotti fossero confusi con quelle birre aromatizzate comprate come souvenir dai turisti”, ribadisce Bryan.
Per lui una buona birra è questione di caratteristiche precise, che nascono da un gioco di equilibri e complessità. “Una birra artigianale mal fatta tende ad essere complessa, ma manca di equilibrio, caratteristica invece peculiare, insieme alla complessità stessa, di una buona birra. Per noi, la chiave è minimizzare le trasformazioni, ragione per cui selezioniamo ingredienti che si trasformano minimamente, come orzo, malto, fiori, frutti interi. Dopodiché utilizziamo questi ingredienti nella maniera più semplice possibile, trasformandoli il meno possibile. Ad esempio non filtriamo la nostra birra e facciamo la carbonatazione naturalmente, tramite fermentazione secondaria, un po’ come si fa con lo champagne”.
Anche se le birre artigianali rappresentano meno dell’1% del mercato mondiale, il Giappone offre un settore dinamico che acquista piano piano sempre più adepti. La degustazione di birra artigianale può essere ancora qualcosa di episodico in questo paese, ma certo oggi è diventato un settore serio. Ciononostante, secondo Bryan, il Giappone presenta numerose difficoltà per i futuri birrai rispetto ad altri paesi,. “Innanzitutto il Giappone tassa la birra 220 yen al litro (1,83€), uno dei prezzi più alti al mondo. Questo porta ad aumentare di 77 yen (0,65€) il prezzo di ogni lattina di birra. Ma l’ostacolo principale è sicuramente il processo di rilascio della licenza, che prende molto tempo, un anno nel nostro caso, ed è soggetto ai capricci arbitrari dei burocrati. D’altra parte, una volta rilasciata la licenza, hanno un’attitudine piuttosto distante e non si immischiano negli affari dei produttori. C’è da dire poi che in Giappone non esiste quel sentimento semi proibizionista verso l’alcool che altri paesi hanno”, fa notare.
Al di là delle questioni tecniche ed economiche, la birra artigianale è e resterà un prodotto di nicchia per sua natura. Anche nei grandi mercati di vecchia tradizione, come in America, la birra artigianale non rappresenta che il 10% del mercato della birra. “Rendendo particolare e complesso un certo prodotto lo si indirizza automaticamente ad un pubblico limitato”, spiega Baird. “È un problema, soprattutto in un Paese come il Giappone, dominato uniformemente da birre leggere come la Pilsner. Ecco perché il mercato della birra artigianale dipende dall’educazione. I venditori al dettaglio giapponesi ad esempio non hanno ancora capito quanto valga la pena investire nel campo della birra artigianale. Noi infatti introduciamo una diversità reale ed un elemento locale unico nel mercato giapponese della birra, un grande cambiamento in confronto alle birre industriali.”
Tuttavia l’ostacolo principale alla diffusione della birra artigianale resta, secondo lui, la mancanza di marche eccezionali. “Anche se può capitare che dei produttori giapponesi ottengano vittorie importanti, come la Coppa del Mondo della birra, troppe birre locali sono in realtà piuttosto mediocri. Affinché i piccoli birrifici vengano presi sul serio, deve scomparire quell’oceano di birre artigianali di bassa qualità e che dovrebbe venir commercializzata una birra dal sapore più equilibrato. Purtroppo la produzione di birra artigianale giapponese è minuscola e il suo impatto commerciale molto ridotto e questo ostacola la portata del mercato”, lamenta.
Il punto di vista di Bryan sul settore della birra artigianale giapponese non è molto positivo. “Esiste ormai da 25 anni e noi ne facciamo parte da venti. Malgrado i lampi di eccellenza e dinamismo, il quadro generale è piuttosto scarno, soprattutto a seguito del Covid”, aggiunge.
Una spinta inattesa potrebbe arrivare da quattro grandi produttori industriali (Asahi, Kirin, Sapporo e Suntory) che hanno recentemente cominciato ad investire nella ricerca e a creare le loro birre artigianali. “Si dice che l’imitazione sia la forma più alta di adulazione. Dopotutto la birra artigianale porta con sé un certo sex appeal che cattura il loro interesse. Ciò detto, preferisco mettere delle virgolette alla loro birra ‘artigianale’. Questi grandi gruppi vi si sono lanciati per motivi puramente economici. Hanno constatato che le birre industriali di base non vendevano più come prima, perché la popolazione diminuiva e le persone tendevano a bere meno. Hanno dunque deciso di fare qualcosa per rimediare, ma certo non basta mettere un’etichetta con ‘artigianale’ sulla loro birra. La loro birra artigianale è sicuramente ben equilibrata, ma manca di complessità. In fin dei conti l’artigianato è sinonimo di vera creatività, di autenticità, di savoir faire. Le grandi compagnie invece amano andare sul sicuro, è nel loro DNA. Noi siamo in competizione sul particolare, il sapore e la personalità. Le birre industriali invece devono piacere a tutti, per un birraio artigianale non è certo questo il caso. In conclusione i produttori artigianali e quelli industriali appartengono a due specie diverse, non penso siamo in concorrenza diretta”, ci dice.
Bryan Baird ha forse guidato la rivoluzione della birra artigianale, ma certamente sa che l’ultima cosa che deve fare è adagiarsi sugli allori del successo ottenuto, specialmente visto il periodo difficile. Ma al di là della debolezza del mercato nazionale e dei problemi legati al covid, Baird Beer resta determinata a diffondere il suo nome e la sua passione per la birra, in Giappone e nel mondo.
G. S.