Una storia a singhiozzo

I giapponesi amano la birra, sebbene questa bevanda non abbia sempre avuto le stesse caratteristiche della birra consumata in Europa. / Eric Rechsteiner per Zoom Giappone

Se il mercato attuale della birra è simile ad altri Paesi, le trasformazioni da un secolo a questa parte sono importanti.

La fabbricazione di birra in Giappone rimonta a circa 400 anni fa. Tutto è cominciato grazie ai mercanti olandesi che ne hanno dapprima importato ingenti quantità, per poi produrne direttamente sull’isola di Dejima, a Nagasaki, durante il periodo Edo (1603-1868). Gli stessi mercanti aprirono persino una fabbrica di birra per placare la sete dei marinai che garantivano la rotta tra il Giappone e le colonie olandesi.
Ne avrebbero addirittura offerta a Tokugawa Yoshimune nel 1724. Lo shôgun è famoso per aver reso più flessibili le norme quasi centenarie contro l’importazione di cultura straniera e incoraggiato la traduzione di libri in altre lingue, iniziando così lo sviluppo dei cosiddetti “studi olandesi”, o rangaku. Secondo Jason Josephson, queste misure sarebbero state influenzate da una serie di conferenze tenute prima di lui dall’astronomo e filosofo Nishikawa Joken, ma il suo interesse per la birra non sarebbe estraneo.
In ogni caso, la consumazione di birra in Giappone è rimasta limitata all’enclave olandese e a qualche giapponese fortunato fino alla seconda metà del XIX secolo. Un secondo incontro con la bevanda occidentale ha avuto luogo quando il commodoro Perry è arrivato nel 1853 per forzare il Paese ad aprirsi al commercio estero.
Poco tempo dopo, il padre della chimica nipponica, Kawamoto Kômin, utilizzò il suo sapere per diventare il primo giapponese a fabbricare la propria birra. Pubblicò il suo metodo nel 1860. La prima ondata di birre importate seguì il trasferirsi delle comunità occidentali nelle zone portuali del Paese aperte al commercio.
Nel corso del decennio successivo, sono stati importati in Giappone diversi marchi britannici e birre bavaresi a bassa fermentazione, ma il mercato fu dominato dalla Bass Pale Ale, una birra inglese fabbricata dalla distilleria Base, allora la più grande al mondo.
Alla fine del XIXesimo secolo, la bevanda rimaneva un prodotto costoso che soltanto i ricchi potevano permettersi. Quelli che volevano provare il brivido della degustazione, ma che non avevano i mezzi per accedere alla birra autentica, si consolavano con una sorta di “birra d’imitazione”: degli intrugli appena bevibili, fabbricati localmente, venduti in bottiglie di birra usate per avere sembianze di autenticità.
Avevano probabilmente un gusto orribile, ma i contrabbandieri dovettero fare fiorenti affari visto che le autorità erano obbligate a vietare le false etichette. La produzione commerciale in Giappone cominciò più o meno durante la stessa epoca, sempre grazie allo spirito d’impresa degli Occidentali. L’Americano di origine norvegese William Copeland, giunto in Giappone nel 1864, fondò la Spring Valley Brewery a Yokohama nel 1869.
Era situata presso una sorgente naturale nel distretto di Yamate, alle pendici della collina dove viveva la ricca comunità straniera. Vi scavò una grotta di 210 metri nel fianco della collina e utilizzò la sua bassa temperatura per fare maturare la bevanda.
L’anno seguente, l’Olandese J.B.N. Hecht aprì un’altra fabbrica nella stessa città. Nel 1872, la società Shibutani Shôzaburô, con sede a Ôsaka, diventò il primo produttore commerciale e nel 1876, venne creata a Sapporo la fabbrica di birra Kaitakushi Hokkaidô, una società controllata dal governo. Nella stessa epoca, altri birrai venuti d’Europa e altrove, giunsero per contribuire alla crescita dell’industria locale.
I due decenni successivi videro un aumento esponenziale della produzione, a tal punto che nel 1866, per la prima volta, la quantità di birra prodotta localmente superò le quantità importate, e una fiera commerciale nel 1890 vide la partecipazione di 83 marchi provenienti da 23 prefetture diverse. Alla fine del secolo, il loro numero era quasi raddoppiato. Sfortunatamente, quello che appariva come un mercato promettente venne progressivamente penalizzato dal governo. A contare dalla promulgazione della tassa sulla birra nel 1901, un processo di consolidamento e razionalizzazione ebbe luogo nel corso del primo decennio del XXesimo secolo, spingendo progressivamente i piccoli produttori verso il fallimento.
Addirittura, nel 1908, una modifica della legge impose una produzione di almeno 180 kl di birra all’anno per ottenere una licenza di fabbricazione. Soltanto poche grandi imprese potevano gestire una tale quantità. Eliminando la concorrenza interna, le autorità continuarono la stessa politica che in altri settori favorì l’emergere di monopoli.
Nel 1907, la Spring Valley Brewery di Yokohama divenne Kirin Beer e tre altri grandi birrifici (Sapporo, Nippon et Ôsaka), grazie all’intervento del ministero dell’Agricoltura e del Commercio, vennero uniti per formare la Dai Nippon Beer Company che, fino al 1949, con 70% di quote di mercato, rappresentava una quota di mercato dominante in Giappone.
D’altra parte, concorrenti minori quali la Sakurada Beer, la Kabuto Beer, la Lion Beer et l’anglo-giapponese Brewing Company furono costretti a chiudere, gli uni dopo gli altri, o a essere assorbiti da imprese maggiori.
La situazione divenne ancora più grave nel 1940, quando la quantità minima di produzione annuale di birra passò da 180 a 1800 kl, misura che distrusse definitivamente qualunque aspirazione da parte di piccoli produttori, di ottenere una licenza. Dal punto di vista del governo, la consolidazione del mercato presentava due vantaggi. In primo luogo, portava nelle casse statali delle somme considerevoli (nel 1955, le tasse sugli alcolici rappresentavano ancora un sesto degli introiti fiscali). Inoltre, i grandi birrifici avevano più possibilità di avere successo sui mercati esteri. In effetti, la Dai Nippon Beer venne conosciuta come “il re delle birre d’Oriente”, poiché rappresentava la più importante fabbrica di birra a est del canale di Suez.
Nello stesso tempo, mentre l’industria della birra continuava a svilupparsi e a diventare una fonte notevole di reddito, la morte temporanea dei micro-birrifici fece estinguere l’eccitante varietà di stili, metodi di produzione e sapori in voga nei primi anni. La nascita della tipica birra giapponese così come la conosciamo oggi, (una pils leggera, frizzante, dal gusto estremamente leggero) rimonta a quegli anni. Ne conseguì una situazione bizzarra occorsa durante la guerra del Pacifico.
Nel maggio 1943, poiché l’utilizzazione di etichette che esponessero marchi era ufficialmente vietata, dovevano essere impiegate soltanto etichette anonime con la semplice scritta generica “birra”. Visto che tutti i marchi erano caratterizzati più o meno dallo stesso sapore, divenne praticamente impossibile distinguerli.
Il controllo serrato del governo sulla produzione e sul commercio della bevanda continuò per tutto il periodo bellico; le cose cambiarono poi nel 1949, con la promulgazione dell’attesa legge anti-monopolio. Ci fu una scissione presso Dai Nippon che vide la nascita di due realtà imprenditoriali: Asahi e Nippon (quest’ultima diverrà in seguito la birra Sapporo). Ogni impresa si vide attribuire un capitale di 100 milioni di yen; Nippon/Sapporo regnava sull’area da Hokkaidô a Nagoya e Asahi controllava Ôsaka e l’ovest del Giappone.
A partire dagli anni Cinquanta, i quattro grandi marchi (nel 1960 il gigante del whisky Suntory raggiunse Asahi, Kirin e Sapporo) affrontarono in una lotta implacabile per aggiudicarsi il primato su un mercato della birra che, nel corso dei due decenni successivi, non smise mai di crescere, parallelamente all’economia nazionale.
Visto che tutte le birre avevano lo stesso gusto, le quattro società immaginarono delle campagne pubblicitarie originali per conquistare i favori del pubblico. Nel 1958, ad esempio, Sapporo Beer lanciò lo slogan “Munich Sapporo Milwaukee”, per sottolineare il fatto che queste tre città famose per la loro birra si situavano tutte sul 45esimo parallelo nord.
La campagna ebbe successo presso il pubblico, sempre più attirato dalle destinazioni internazionali. Nei primi anni del dopoguerra, Sapporo dominava il mercato grazie alla sua vasta rete di bar e locali nell’est del Paese. Tuttavia, con il cambiamento delle abitudini di consumazione e l’introduzione della birra in lattina, nel 1958, sempre più persone cominciarono a bere tra le mura domestiche. Questa dinamica favorì Kirin, che impose il suo primato superando rapidamente i rivali, fino al lancio, alla fine degli anni Ottanta, di un nuovo prodotto proposto da Asahi.
L’Asahi Super Dry conobbe un successo istantaneo (vendette circa 200.000 casse durante le prime due settimane e superò le 100 milioni di casse in soltanto tre anni ), posizionando il birrificio in cima al podio del mercato, una leadership che non si è mai interrotta fino ad ora.
Il successo di questo prodotto ebbe un duplice impatto sul mercato. Da una parte, le sue caratteristiche (“gusto pronunciato e rinfrescante, simile a quello di certe birre del nord della Germania, senza i sapori di malto più pesanti dei prodotti concorrenti”, secondo i termini della sua campagna pubblicitaria) resero la birra commerciale ancora più leggera e frizzante di prima. In secondo luogo, il significativo aumento della domanda dei consumatori per questo tipo di birra innescò quelle che vengono definite le “guerre delle Dry”.
La risposta di Kirin al best- seller di Asahi fu la Kirin Dry, lanciata nel 1988. Due anni più tardi, Kirin rilanciò e propose sul mercato la Ichiban Shibori. I nuovi prodotti però, anziché indebolire Asahi finirono per fare concorrenza alla Kirin Lager e ad altri prodotti più datati della stessa società.
Sapporo conobbe una situazione ancora più difficile e mise un termine alla produzione delle sue birre Dry dopo soltanto due anni. Suntory, invece, si rese conto di quanto fosse inutile battersi contro Asahi e lanciò una doppia offensiva con la Suntory Dry 5.5, una birra più forte grazie all’aumento della gradazione alcolica da 5% a 5.5%. Parallelamente, procedette a senso inverso lanciando un nuovo marchio di malti accompagnati da una campagna “I don’t do dry”.

Pubblicità del 1926 per la Lager Beer prodotta da Kirin. / Kirin Beer


Più recentemente, due eventi hanno scosso il mercato nel 1994. Prima di tutto, i fabbricanti di birra hanno immaginato una nuova creazione, una bevanda a basso tenore in malto chiamata happôshu, concepita per evitare la tassa punitiva sugli alcolici.
Confermando la mancanza di gusto dei consumatori giapponesi, questa sorta di “birra di imitazione” ha rapidamente conquistato il mercato, seguita più tardi da altre creazioni bizzarre: i “nuovi generi” o la “terza birra” (Shin janru ou daisan no bîru) che non contengono più un’oncia di malto.
Nello stesso anno, il governo ha ridotto le condizioni per l’ottenimento della licenza di fabbricazione, passata da una produzione annuale proibitiva di 2.000 kl a soltanto 60 kl. Di conseguenza, numerose piccole fabbriche regionali hanno cominciato a fiorire in tutto il Paese, ristabilendo infine quella diversità assente dagli inizi del XXesimo secolo.
Certamente, i circa 180 micro-birrifici attualmente in attività non producono tutti un’ottima birra. Ma secondo gli esperti, esistono almeno 20-25 birrifici giapponesi che propongono prodotti di prima qualità, oltre a una vasta gamma di stili e sapori.
Ancora oggi, quando i giapponesi pensano alla birra, hanno una sola cosa in mente: una bevanda alcolica fresca, facile da bere, che plachi la sete.
Mentre negli Stati Uniti la birra artigianale gode di un’invidiabile quota di mercato pari al 12% (22% della quota totale della birra) e mentre in altri grandi Paesi consumatori la parte di mercato dedicata alla birra proveniente da piccole realtà imprenditoriali si situa tra il 5% e il 10% , in Giappone, la percentuale è ancora appena dello 0,8%.
Malgrado ciò, i micro-birrifici non vogliono certo rappresentare una realtà effimera, e gli appassionati di birra hanno oggi la possibilità di gustare un’ampia gamma di birre artigianali che non hanno nulla da invidiare alle loro sorelle occidentali.
Jean Derome