Il mare ha un ruolo fondamentale nella cultura del Paese ed è una parte essenziale di ogni visita / Gianni Simone per Zoom Giappone
Dopo 27 anni trascorsi principalmente a Tokyo, il nostro collaboratore ci accompagna in un viaggio iniziatico.
Da quanto tempo vivi in Giappone? La vita di un immigrato viene spesso misurata e giudicata in base alla durata della sua permanenza in un determinato Paese, e il Giappone non fa eccezione. Quando si incontra la gente del posto, si è sottoposti a un certo tipo di domande (Cosa fai? Perché sei venuto in Giappone?), e la questione del tempo non è mai in fondo alla lista. La stessa cosa accade quando si incontra un altro gaijin (straniero). È come una sessione di allenamento. Si compete l’uno contro l’altro per vedere chi dei due ha accumulato più punti di anzianità e può vantarsi di essere un espatriato. Alcuni sono più aggressivi, altri si comportano in modo più discreto, ma prima o poi si arriva a quel punto: « Da quanto tempo vivi in Giappone? ». È qui che gioco il mio asso: 27 anni. Con poche eccezioni, vinco la partita! Ma non sono qui per vantarmi. Anzi, è proprio il contrario. Sono qui per confessare che, dopo 27 anni di permanenza in questo Paese, non sono ancora sicuro di conoscerlo bene. Sono stato a Hokkaido, ho visitato i famosi siti turistici di Kyoto e Nara, ma non molto altro. Il fatto è che amo Tokyo e finora non ho trovato alcun motivo valido per lasciare la capitale, nemmeno per una settimana. Ho trascorso gli ultimi 27 anni esplorando le sue strade e registrando il modo in cui la città, come un essere vivente, cambia e muta costantemente in qualcosa che sembra essere sempre lo stesso, ma che è comunque un po’ diverso.
Ancora oggi, quando mi chiedono cosa mi piace del Giappone, rispondo sempre che mi piace Tokyo, non il Giappone. Questa città è stata il mio primo amore e per molto tempo non ho avuto la curiosità di vedere cosa c’era oltre i suoi confini. A dire il vero, non so nemmeno perché sono finito in Giappone.
Prima di frequentare l’università in Italia, ne conoscevo a malapena l’esistenza. Per me questo Paese apparteneva a un’altra dimensione, fuori dalla mia portata. Era troppo lontano da me per suscitare il mio interesse, sia fisicamente che mentalmente. Le uniche cose che conoscevo del Giappone erano le geishe e i samurai. E anche gli anime. Non ero nemmeno un fan delle arti marziali. Quando frequentavo le scuole elementari, il mio migliore amico si era iscritto a un corso di judo e si era rotto un braccio. Questo probabilmente mi ha tenuto lontano da tutti i dojo.
Nel 1989 sono venuto comunque in Giappone per seguire la mia ragazza di allora. Il Giappone di quel tempo era un luogo molto diverso da quello di oggi. Era il primo anno del nuovo periodo Heisei. L’imperatore Hirohito era morto a gennaio e la bolla economica era ancora nel suo pieno, con l’indice azionario Nikkei che aveva raggiunto il massimo storico di 38.957 punti. I terreni del quartiere di Ginza a Tokyo erano considerati i più costosi al mondo, con oltre 30 milioni di yen (270.000 euro) al metro quadro.
La gente continuava a lavorare sodo e a fare festa, lamentandosi solo leggermente dell’imposta sui consumi del 3% introdotta ad aprile. Lo yen era in calo rispetto al dollaro, ma era ancora abbastanza forte da piegare la mia umile lira italiana.
Tutti andavano pazzi per i pokeberu (Pocket Bells, la versione giapponese dei cercapersone) e milioni di lavoratori e studenti passavano il tempo a mandare messaggi. Circa un mese prima del mio arrivo, la cantante e icona culturale Misora Hibari era morta all’età di 52 anni. Il suo ultimo singolo, Kawa no nagare no yô ni, è stato in seguito votato come la più grande canzone giapponese di tutti i tempi. Il titolo significa « Come il flusso del fiume » e, come l’acqua che scorre in un fiume, i bei tempi inebrianti erano stati rapidamente sostituiti da tempi sorprendentemente brutti.
Sono tornato definitivamente in Giappone nel 1992 e ho trovato un posto piuttosto diverso: l’indice Nikkei era sceso a 14.309 e la crisi dei prezzi degli asset aveva inaugurato quello che è stato poi chiamato il « decennio perduto ». Molti giapponesi non si erano ancora resi conto che il futuro era cupo, dato che la gente continuava a spendere e a viaggiare all’estero. Al Juliana’s Tokyo – il nightclub più glamour della capitale – le body-con girls (ragazze in minigonna attillata) facevano ancora la festa come pazze e la musica era così alta che nessuno deve aver sentito lo scoppio della bolla. Il 1992 è stato anche l’anno in cui, per la prima volta, ai dipendenti pubblici è stato concesso un fine settimana di due giorni. Per sottolineare la posizione del Giappone sulla scena mondiale, il Presidente degli Stati Uniti George Bush vomitò ai piedi del Primo Ministro Miyazawa Kiichi durante una cena di Stato a Tokyo.
Per quanto mi riguarda, dopo aver terminato l’università e aver svolto il servizio civile, ero finalmente libero dai miei obblighi, disoccupato, preoccupato, per lo più ancora ignorante della vita, ma desideroso di lasciare la mia noiosa e sonnolenta città natale per le luci brillanti di Tokyo.
Per la prima volta in vita mia, ero circondato da insegne e cartelloni pubblicitari scritti in caratteri che riuscivo a malapena a leggere. Per due anni avevo cercato di imparare a malincuore quei fastidiosi caratteri cinesi, ma le poche centinaia che conoscevo erano a malapena utili.
Dall’altro lato, quando sono andato al cinema sono stato felice di scoprire che non c’era nessun intervallo. Per me questa era la prova definitiva che il Giappone era un Paese altamente istruito e illuminato. Quando sono uscito dal teatro, ho deciso che avevo trovato il mio paradiso. O, per essere più precisi, ero finalmente tornato a casa.
Quest’anno compio 56 anni. Sono arrivato in Giappone all’età di 28 anni, il che significa che ho trascorso in Giappone tanti anni quanti ne ho trascorsi in Italia. Non credo molto nel significato segreto dei numeri, nella cabala o nel destino, ma questa coincidenza mi ha colpito. A 28 anni avevo iniziato una nuova vita, quindi ho pensato che il minimo che potessi fare a 56 anni sarebbe stato cogliere l’occasione e fare qualcosa di diverso, qualcosa fuori dall’ordinario. Come un viaggio per il Giappone, un Paese che mi è stato così vicino per tutti questi anni ma che conosco appena.
Ogni volta che viaggio da solo, sono sopraffatto dagli addii, dagli abbracci e dai baci. Così, quando finalmente è arrivato il giorno della partenza, ho provato una tristezza infinita, appena mitigata dalle battute di mia moglie (« attento ai malvagi cacciatori di oyaji che di notte si aggirano per le strade in cerca di uomini di mezza età da picchiare! »), e per un attimo sono stato tentato di abbandonare i bagagli e ritirarmi nella tranquilla e calda felicità della vita domestica. Ma poi mi ha cacciato e la cosa è finita lì.
Sul treno diretto a sud, ho aperto lo zaino e ho iniziato a leggere il libro che avevo scelto per tenermi compagnia: Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain.
Gianni Simone