Come Imada Miho, sempre più donne si sono lanciate nella produzione della “bevanda degli dei”.
Il Giappone ha sempre saputo conservare le sue tradizioni che perdurano da secoli, tradizioni che hanno ugualmente la loro parte oscura: numerosi mestieri e luoghi sono stati per un tempo infinito proibiti alle donne. Lo sport nazionale, il sumo, vede ancora il divieto per le donne di mettere piede sul ring (all’epoca Edo, le donne non avevano nemmeno il diritto di assistere come spettatrici agli incontri); le donne non potevano accedere alle montagne sacre, quali il Monte Fuji e non potevamo partecipare a certe feste, senza parlare del teatro kabuki, ancora oggi interpretato unicamente da uomini, o del teatro nô, in cui le donne hanno fatto la loro apparizione soltanto nel dopoguerra.
Se, nell’ambito della gastronomia si cominciano a vedere chef donne apparire timidamente, rari sono quelli che possono aver visto una donna alla testa di un ristorante di sushi: secondo la credenza popolare, le donne non sono adatte a questo mestiere a causa delle mestruazioni o della temperatura più elevata delle loro mani che altererebbe la qualità del pesce…
Il mondo del sakè non sfugge a questo costume dettato dalla superstizione. Si è detto per lungo tempo che lasciare entrare una donna in una cantina poteva corrompere il sakè. Nel Giappone di oggi, tuttavia, decine di donne tôji (maestro chai) lavorano nelle cantine e molte sono conosciute ed apprezzate per la qualità del loro sakè. Nell’ambiente della fabbricazione della bevanda nazionale, il tabù sulle donne sembra dissiparsi più velocemente rispetto ad altri settori tradizionali.