Kenbishi, l’anima del sakè

A capo dell’impresa, Shirakashi Masataka difende con forza un approccio radicato nella tradizione. / Laura Liverani per Zoom Giappone


“È questo gusto che vogliamo perpetuare. La nostra produzione è interamente concepita per fornire costantemente lo stesso sakè ai nostri clienti. Non impieghiamo i metodi tradizionali solo per principio, ma facciamo tutti gli sforzi possibili se uno strumento tradizionale ci è necessario alla preservazione del gusto caratteristico del Kenbishi”, afferma Shirakashi Masataka.
Effettivamente, la visita di questa azienda si rivelerà un’esperienza unica. Un tempo c’erano otto cantine, ma sette sono crollate nel corso del terremoto di Hanshin-Kôbe, nel 1995. Nella catastrofe hanno perso la vita quattro membri del personale. Da allora, Kenbishi ha ricostruito tre cantine sullo stesso terreno. Nelle quattro unità lavorano da ottobre ad aprile, durante la stagione di preparazione del sakè, quattro tôji (maestri chai) e cento persone in totale.
Dall’esterno, gli immensi edifici recenti in cemento hanno quasi un aspetto intimidatorio, evocando un vero e proprio complesso industriale. Ma all’interno si scorgono i grandi e piccoli barili di legno, si sente l’odore del kakishibu, l’estratto di kaki amaro tradizionalmente utilizzato come rivestimento per impermeabilizzare e conservare il legname.
Nel corso della nostra visita, gli impiegati approfittano del termine della stagione per fare un po’ di manutenzione sugli strumenti necessari alla preparazione del sakè. Sulla terrazza, dei pesci sono lasciati seccare in un cesto. “Sono preparati dai membri del personale che consumano i loro pasti sul posto”, spiega Shirakashi Masataka. Un po’ come se questa grande azienda moderna racchiudesse un atelier artigianale. Mentre in una fabbrica di grandezza simile è necessaria solo una quarantina di persone in media, da Kenbishi ne lavorano più del doppio. “La nostra fabbrica è piuttosto grande, ma non sono le macchine a compiere il lavoro, sono i nostri artigiani che applicano i metodi tradizionali.”
In effetti, la scelta di ogni materiale è guidata da una logica limpida. Se, per fare cuocere il riso, hanno preferito conservare i grandi barili di legno, è perché, paragonandoli ai recipienti in metallo, hanno trovato che il legno dava risultati migliori.
I barili per conservare il sakè invece, sono di metallo poiché viene ritenuto che quelli di legno espongano a un numero più elevato di rischi igienici e non contribuiscano a migliorare il gusto.
Continuano tuttavia a utilizzare i barili in legno per controllare la temperatura durante la fermentazione dello shubo, la “matrice del sakè”, dal momento che il cambio di temperatura avviene lentamente, mentre a contatto col metallo può essere brutale.