Kenbishi, l’anima del sakè

Kenbishi, vede la sua produzione di sakè cominciare in ottobre e terminare in aprile. / Laura Liverani per Zoom Giappone


Nella “camera dei kôji”, il luogo dove viene preparato il fungo kôji, indispensabile alla fase cruciale della fermentazione del sakè, i vassoi sui quali è steso il riso cotto al vapore sono piuttosto piccoli perché gli artigiani possano spostarli rapidamente a ogni minima evoluzione delle spore. Un’operazione primordiale, dal momento che non viene usato un sistema elettrico di riscaldamento per il controllo della temperatura nella stanza. “In generale, questa taglia di vassoio è usata soltanto per le cuvée speciali presso gli altri produttori, poiché richiede molta attenzione. Se abbiamo deciso di coinvolgere più personale è giustamente per poter offrire queste attenzioni particolari a ogni cuvée, senza eccezioni”, assicura Shirakashi Masataka.
Non propongono nemmeno dello namazake, le cosiddette cuvée “crude”, sakè non pastorizzati, molto di moda in questi ultimi tempi per via della freschezza del gusto. “I namazake sono buoni e non ho nulla contro questa moda. Ma se tutti cominciano a produrre saké da consumare subito, siamo destinati a perdere la capacità di immaginare un sakè che sia migliore tra uno o due anni. Certo, la pastorizzazione fa perdere il profumo fresco; l’umami però, aumenta. Il nostro saké è concepito affinché il suo gusto migliori col tempo. Lo conserviamo in genere due o tre anni prima di imbottigliarlo, mescolando i millesimi per generare un gusto complesso. Abbiamo persino un millesimo di trentacinque anni: lo gustiamo ogni anno per verificare e determinare il buon momento per commercializzarlo, ma ogni anno, ci diciamo che esiste ancora un margine di evoluzione”, racconta il proprietario di Kenbishi.
Questa visione a lungo termine rappresenta un investimento e Kenbishi conserva la stessa filosofia anche nel preservare i mezzi e il personale essenziali alla produzione. In effetti, è necessario assicurarsi di aver artigiani capaci. Un solo artigiano di Ōsaka sa produrre dei barili di taglia grande. Quando Shirakashi Masataka ha saputo che questi avrebbe chiuso i battenti dell’atelier nel 2020, ha inviato due impiegati della sua impresa a formarsi presso di lui per imparare i segreti del suo savoir faire e ha in seguito costruito un atelier vicino alla cantina per la fabbricazione dei barili, in modo da continuare a poter usare questi stessi recipienti, realizzati nello stesso modo da sempre.
Per i barili più piccoli, ha direttamente assunto l’artigiano che forniva l’azienda, e gli ha chiesto di lavorare nel suddetto atelier per insegnare al resto del personale la tecnica di fabbricazione.
Questo atelier fornisce così non soltanto i materiali necessari a Kenbishi, ma si pone come obiettivo quello di fornire in futuro altri produttori desiderosi di utilizzare barili tradizionali. Ha poi acquistato una macchina per fare delle trecce di paglia a partire dalle spighe di riso per avvolgere i barili di sakè destinati a diventare offerte nei templi.
Ovunque in Giappone, queste trecce di paglia sono oggi rimpiazzate da trecce di plastica. Shirakashi Masataka dice di aver riflettuto a lungo prima di impiegare questo macchinario, dal momento che questa decorazione esterna non riguarda il gusto del sakè. “Per fare delle offerte agli dei del sakè, bisogna che il sakè sia decorato da spighe di riso. Se si utilizza la plastica, diventa un’offerta al dio del petrolio. Questo complica le cose, giusto?” aggiunge, scherzando.