Intervista : Una coscienza sempre viva

Dopo aver avviato la sua carriera di scrittrice, Yu Miri non ha mai smesso di interessarsi a coloro che non hanno nessun posto dove andare.

Scrittrice celebre e insignita del prestigioso premio Akutagawa nel 1997, Yu Miri ha scelto di vivere la propria vita vicino a quelli che soffrono. ZOOM Giappone l’ha incontrata durante il suo recente passaggio a Londra, dove era venuta a parlare del suo lavoro di scrittrice qualche mese dopo la pubblicazione del suo primo romanzo tradotto in inglese.

Prima di lanciarsi nella scrittura, ha lavorato come attrice per la troupe Tokyo Kid Brothers. Cosa l’ha portata verso il teatro?
Yu Miri: In realtà non ho veramente potuto scegliere cosa avrei voluto fare nella vita. Quando ero alle elementari, ho passato gli esami per entrare alle medie, ma non mi sentivo a mio agio. Non so se fosse l’ambiente o l’idea di imparare cose che non mi interessavano, non saprei dirlo con chiarezza. Fatto sta che ho rifiutato di continuare ad andare a scuola e ho cominciato a consultare uno psichiatra. Ho finito per essere espulsa dall’istituto. Dopo questi eventi, ho trascorso la maggior parte del mio tempo sotto la stretta sorveglianza di mia madre, visto che avevo tentato la fuga più volte e persino tentato il suicidio a più riprese. Data la situazione, non poteva lasciarmi uscire. Abbiamo spinto al massimo i nostri limiti psicologici, al punto che una sera trovai mia madre in piedi di fronte al mio letto, a mezzanotte, con un coltello da cucina in mano. Ricordo anche altri episodi sinistri simili. Una volta mi disse di voler parlare con me, fuori da casa nostra. Siamo partite a bordo della sua moto, ma lei ha provato a farci andare fuori strada e precipitare in mare. Fu un momento estremo, mia madre era pronta a eliminarmi e a uccidersi nello stesso istante. Era assolutamente necessario che lasciassi quella casa. Poco importa dove andassi.

Così ha raggiunto la troupe dei Tokyo Kid Brothers…
Y. M.: Esatto. Una serie di fortunate circostanze mi ha portato fino a loro. Ero fuggita mentre mia madre stava dormendo, ed ero finita nel quartiere di Harajuku, a Tokyo, dove la troupe si era appena esibita. Avevo sedici anni quando sono entrata a far parte del gruppo, ma questo evento non è stato il frutto di un progetto preciso. Visto che ero stata espulsa dalla scuola, il mio livello culturale era molto debole, al punto che non potevo nemmeno aspirare a un impiego part-time fra i meno qualificati. Di fronte a questa mancanza di scelte possibili, mi sono diretta verso il teatro, dove il mio percorso scolastico non aveva alcuna importanza.

Non pensa che avrebbe potuto continuare a coltivare questa vocazione e diventare celebre come lo è oggi in qualità di scrittrice, dal momento che il teatro corrispondeva bene alla sua personalità?
Y. M.: Hmm… A dire il vero, non penso di essere davvero tagliata per il teatro. Dopo il mio ingresso alle medie, ho sempre avuto l’impressione di mantenermi in equilibrio precario, un semplice passo falso avrebbe provocato la mia caduta, sia a casa che a scuola. La scrittura mi è dunque sembrata l’ultima possibilità per rimanere stabile e in equilibrio su questa minuscola piattaforma, dove c’era spazio solo per me e dove potevo stare in piedi.

Perché, nella scrittura, ha preferito i romanzi?
Y. M.: Ho scritto una decina di pièces teatrali e persino ottenuto un premio, il Kishida Kunio. Tuttavia, la scrittura per il teatro è un lungo processo creativo dove si redige lo script, poi lo si dà allo sceneggiatore e infine lo si passa agli attori. Ho sentito a poco a poco la necessità di svincolarmi da questo ciclo in cui il risultato finale dipendeva dalla qualità di questo processo. Volevo comunicare direttamente col lettore, maturare una relazione più personale con esso. È per questo che ho cominciato a scrivere romanzi e continuo ancora oggi. Questo non significa che abbia messo un termine definitivo alla scrittura di pièce teatrali. A questo proposito penso di scriverne una a breve.

Che genere di pièce amerebbe scrivere oggi?
Y. M.: Vivo a Minami Soma, nella prefettura di Fukushima. Lavoro alla radio, dove produco qualche trasmissione per la stazione dedicata alle urgenze. È un’emittente che comunica in caso di catastrofi importanti, quando le vie di comunicazione sono bloccate, e fornisce una serie di informazioni pratiche e utili. Non è quindi una stazione radio che trasmette in permanenza, ma soltanto quando gli effetti di una catastrofe si fanno sentire. Minami Soma si trova in prossimità della centrale di Fukushima-Dai-ichi, dove ebbe luogo l’incidente, e numerose persone vivono ancora lì in alloggi provvisori. Prima dell’11 marzo 2011, la popolazione era superiore a 70.000 abitanti, oggi ne rimangono appena 50.000. Evidentemente molte persone sono decedute, ma molti abitanti sono stati evacuati fuori dalla città e vivono ancora oggi come rifugiati.
Ispirandomi a questo contesto presento ogni settimana una trasmissione di 30 minuti, nel corso della quale raccontiamo la storia di queste persone, invitando ogni volta un paio di loro a parlare. Abbiamo ospitato diverse «coppie»: marito e moglie, coppie di amici, uno studente col suo professore, colleghi di lavoro, fratello e sorella, persino commercianti coi loro clienti. In totale, 420 persone sono passate dallo studio di registrazione.
Mi sono chiesta se avrei potuto trasformare queste testimonianze e questo lavoro in pièce teatrale. Tutte queste persone sono reduci del terremoto del 2011 e continuano a patirne le conseguenze. In parte sono passive, poiché ricevono degli aiuti. Credo sarebbe bene poterli aiutare a esprimersi in maniera più diretta, con le loro proprie voci. Vorrei ricorrere a persone ordinarie per interpretare i ruoli, piuttosto che rivolgermi ad attori professionisti. I dialoghi non sarebbero in giapponese standard, ma in dialetto locale.

Poiché vive a Minami Soma e si interessa ai problemi sociali e politici, molte persone la considerano un’autrice impegnata. Ha la stessa opinione di se stessa?
Y. M.: Non faccio tutto questo perché desidero impegnarmi politicamente. Il fatto è che la centrale incriminata si chiama «Fukushima» ma, in realtà, è una struttura creata da Tokyo Electric Power Company (Tepco) e l’elettricità prodotta non era destinata alla popolazione della prefettura di Fukushima, ma interamente a quella della regione di Tokyo. Quando ho cominciato a rendermi conto di questo, ho capito che la catastrofe non era accaduta nella lontana prefettura di Fukushima. Ho cominciato a capire che, in quanto individuo che aveva trascorso la maggior parte della sua esistenza nella capitale, anch’io avevo una parte di responsabilità in questa situazione.

Cosa l’ha motivata a venire ad abitare qui?
Y. M.: Ascoltando le storie delle 420 persone incontrate alla radio, ho potuto considerare il peso delle loro difficoltà quotidiane. Non tanto i problemi legati alla radioattività, quanto quelli legati all’economia locale. In una regione come questa, dipendente essenzialmente dal settore dell’agricoltura, la catastrofe ha reso le coltivazioni impossibili.
Anche se i test relativi alle quantità di cesio sono oggi normali, nessuno vuole acquistare i prodotti locali. Certi produttori di latte e di prodotti agricoli, sono stati spinti al suicidio. Le zone costiere di Fukushima poi, sono socialmente molto diverse dalla città: numerose famiglie composte da due o tre generazioni vivono sotto lo stesso tetto. Esistono delle parcelle di terreno attorno alle quali crescono dei micro-villaggi composti da un edificio principale, una dependance, una casa per i genitori anziani che viene chiamata “inkyo”, un capannone, terreni coltivabili, risaie e boschi. Qui vivono decine di famiglie “allargate”, fra le quali esistono legami estremamente forti.
Per fornire un esempio, si può vedere un bambino allattato dalla madre, ritrovarsi nella casa di fronte, dove la madre della famiglia vicina non esiterà ad allattarlo al seno a sua volta. Nella regione esiste una specialità chiamata hokki gohan (riso alle vongole). Se una famiglia prepara le vongole, è molto probabile che sarà il vicino a preparare il riso. Esiste quindi una solidarietà fortissima tra di loro, completamente differente dalle relazioni sociali che si sviluppano in città. In seguito alla catastrofe nucleare, tuttavia, i membri più giovani delle famiglie sono stati evacuati, lasciando indietro i genitori anziani. Questa separazione delle famiglie è un autentico dramma. Mi sono dunque detta che se avessi continuato a vivere tranquillamente a Kamakura, a sud di Tokyo, e fossi venuta qui solo per il lavoro alla radio, non sarei stata capace di capire realmente le difficoltà che la gente di qui affronta tutti i giorni. Ecco perché ho deciso di venirci ad abitare.